Eva - Luigi Albano

LUIGI
LUIGI
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EVA

In principio Dio creò cielo e terra; e distese il firmamento a maniera di azzurro padiglione; seminò lo spazio di stelle; incoronò il sole di un diadema di luce, e fece bella la luna di molle e soave chiarore.

E la sua destra abbellì di verde e di fiori la faccia della terra; scavò la prigione, in cui l’Oceano e dorme e freme; inviò, a maniera di numerose repubbliche, infiniti esseri viventi, a popolare e rallegrare le regioni dell’aria, delle acque e dei campi della terra.

Però nello splendore di sua ricchezza e dei suoi ornamenti, l’universo dava sembianza d’impero senza re, e di tempio senza pontefice: aspettava un signore, ai di cui piedi potesse versare la copia dei suoi tesori, un interprete che trasmutasse in prece l’armonioso concerto delle creature, e tutti i loro ciechi omaggi accogliesse nel sublime senso di un atto di amore.

Allora Dio compiè l’opera sua; e l’uomo sacerdote e re entrò nell’universo.

Una parola di comando avea prodotto tutte le altre cose; e queste in sostanza altro non potevano se non obbedire a Dio, senza intelletto, e celebrarne le glorie, senza cuore.

Egli disse: « Sia la luce », e la luce fu.

Ma l’uomo fu prodotto da una parola di consiglio; perocch’egli sarebbe munito di libertà morale, quindi capace di una fedeltà prestata col proprio consentìmento, e signore del suo destino; epperò Iddio disse: «Facciamo l’uomo a immagine e similitudine nostra; ed abbia signoria su’pesci del mare, su’volatili del cielo, e sulle bestie, e sulla terra universa , e sopra ogni rettile che muovesi sopra la terra » (Genes. I, 26).

E configurò un po’di argilla, e in quest’opera delle sue mani spirò soffio di vita, infusavi un’anima intelligente e libera: l’uomo apparve, ed ebbe nome Adamo; perch’era composto di limo.

Fratello agli angioli per sua spiritual natura, primo tra gli esseri visibili per la bellezza delle forme, egli è a dir cosi l’orizzonte del mondo, quasi complemento e compendio di tutti i suoi splendori. Fatto a immagine e somiglianza di Dio, spicca dalla sua fronte come un riverbero della gloria increata, e dal suo sguardo qualche
cosa di rivelazione della eterna sapienza; il suo riso è come baleno della felicità de’cieli; l’atteggiarsi accenna la sua supremazia; e nel suo cuore accentrasi con sentimento profondo la sete e la fame insaziabile dell’infinito.

Eccolo; egli imprimerà sulla natura materiale il suggello della sua propria intelligenza; i miracoli delle arti sbocceranno sotto le sue mani, a maniera di fiori sotto il raggio del sole, e gli elementi impareranno ad incurvare sotto la mente sua tutte le loro forze vittoriosamente disciplinate.

E la Divinità degnerà parlargli con labbro amico, ed egli sosterrà il peso di questo formidabile commercio; e sublimando insino a se tutto questo muto universo, quasi festoso dell’onore della sua persona, compenserà il debito della creazione con fare ascendere insino al cielo il profumo di una preghiera piena di amore e la eletta lode di una vita immacolata. Adamo era tuttavia solitario nella immensità del suo impero.

Ne assunse il solenne possesso dando nomi agli animali suoi schiavi; a un ordine di Dio passarono dinanzi a lui, e ciascuno secondo la sua specie ricevette il nome appropriato alla sua natura.

Ma nessuno fra quelli pareggiava l’uomo, nè avea capacità a comprendere quello che egli comunicasse nè a rispondere. Qualche cosa mancava dunque alla pienezza della vita di Adamo; e certo non era organizzato in maniera da star solo, e il suo pensiero ed il cuor suo aveano bisogno delle fraterne simpatie di un altro pensiero e di un altro cuore; nell’infortunio forse si farebbe senza di un amico, non però mai nella felicità.

E disse il Signore: « E‘ non istà bene che l’uomo sia solo; facciamogli un aiuto che sia simile a lui » (Genes. Il, 48). Impertanto non creò mica la femmina com’ebbe creato l’uomo; la formò, non già di limo grossolano, ma d’un’argilla purificata e nobilitata.

Mise un sonno profondo in Adamo, e da quel duro involucro che fa coperchio e usbergo al cuore, staccò un osso, e ne formò la donna; la materia si fa arrendevole sotto le sue dita; e lo stesso nulla esulta e si avviva al suo soffio.

E così, certo a significare che la donna sarebbe compagna onorata, e non già schiava o signora dell’uomo, il Creatore la compose di un osso tratto da quella regione del corpo dove da il suo palpito l’organo dei sensi generosi; santuarlo ove abita ogni cosa cara all’uomo e rispettata da lui, e inaccessibile a tutto quello ch’egli tiene in odio, o in disprezzo.

Quando Dio ebbe in tal modo edificato in donna la costola di Adamo (Gen. Il, 22), come dice la Scrittura, onde dipingere con quello stile grandioso e severo tutto ciò che havvi nella donna di mirabili proporzioni e di ordine magnifico; quand’ebbe compiuta la nuova creatura, fatta parimente a sua immagine e somiglianza, ci la presentò ad Adamo.

Ella era pura e piena di grazia , e l’innocenza ne agguagliava la bellezza; che disordine alcuno non avea guaste ancora le opere di Dio, nè mutato in pericolo la loro intemerata semplicità.

Adamo usciva da quel sonno estetico, in cui l’anima sua tocca da lume supremo, avea contemplato ciò che Dio operava; ci si riconobbe nella donna, i tempi avvenire squarciaronsi davanti agli occhi suoi, e proferì quelle parole ripiene di scienza e di mistero: « Ecco ora l’osso delle mie ossa, e la carne della carne mia; questa avrà nome dall’uomo, perocch’ella è cavata dall’uomo » (Ib. 23).

Laonde soggiunge il Signore sia di bocca propria, sia di quella di Adamo: « E perciò l’uomo lascerà il padre suo e la madre, e starà unito è alla sua moglie: e saranno due in una carne » (Ib. 24).

In tal guisa fu contrattata e stabilita, per la ispirazione e alla presenza di Dio, l’unione dell’uomo e della donna, dolce unanimità di pensieri e di sentimenti, riflesso dell’eterna unione che allegra le divine persone, profetica immagine delle nozze auguste che un giorno il Verbo dovea celebrare coll’umana natura.

Il matrimonio in tal modo ricevette sin dalla sua origine un carattere di unità e d’indissolubilità, per il quale si
sottrae al tenebroso giudizio de’sensi e dell’egoismo, e sorgesino al merito di un atto religioso, e alla sublimità di un tenero e delicato sacrifizio. Sceverandolo di questo doppio suggello che lo consacra e lo consolida, i popoli pagani lo degradarono nella legislazione, e ne’ costumi l’avvilirono; la religione cristiana gli restitul le sue primarie condizioni di parità e di gloria; e oggimai l’Europa non patirebbe che fosse pubblicamente diseredato de’ suoi diritti riconquistati.

Dopo che Dio benedisse l’uomo e la donna, comunicò loro la fecondità, gloriosa emanazione della sua virtù creatrice; e in certa guisa costituì la dote del primo matrimonio: « Crescete, disse, e moltiplicate; riempite la terra e soggiogatela; dominate ai pesci del mare, e ai volatili del cielo e a tutti gli animali che hanno moto sulla terra » ([b. I, 28).

Indi assegnò loro ad alimento l’erbe e lo frutta degli alberi. Tenendoci ai termini della narrazione biblica e principalmente accostandola al permettere che Dio fece a Noè, dopo il diluvio, di mangiare la carne degli animali, bisognerebbe pensare che nel principio la razza umana non vivesse se non di legumi, di piante, di radici, di semenze e di frutti.

Ciò che non vuol dire che non fosse organizzata per vivere anche di carne; vuol dire soltanto che gli esseri non sono tenuti ad esercitare tutte le loro facoltà ovunque e sempre. La doviziosa fertilità della terra, il sapore delle piante e delle frutta, la robustezza dei primi uomini, forse la rarità degli animali e la necessità della loro riproduzione, tutto dà ragione e motivo di questa astinenza imposta alle età primitive.

E nessuno ignora che i popoli han serbatà la memoria di una vita semplice e frugale che riferiscono all’origine del mondo; hanno cantato in bei versi la sobrietà degli avi nostri, i quali mangiando soltanto per soddisfare alla fame si contentavano degli alimenti che senza condimento la natura ricca e docile spandeva da sè medesima ai loro piedi.

E Dio vide tutte le cose da lui fatte, ed erano grande mente buone. I vari esseri non trapassavano i limiti naturali delle loro facoltà, e in tutta la creazione regnava l’equilibrio e l’armonia. Tutta la natura pareva che sorridesse all’uomo, il cielo era sereno, il lavoro non apportava stanchezza; gli animali piegavansi docili agli ordini del loro re; siccome l’anima obbediva fedele a Dio, esercitava un facile imperio sul corpo, suo compagno e suo suddito: tutto procedeva nel disegno delineato dalla sapienza di Dio.

La quale pace non durò, ma lasciò tracce indelebili di sè nella immaginazione dei popoli: simili a gente proscritta che rimembra nell’esilio i perduti godimenti della patria, tutti quanti hanno manifestato il rammarico e consacrato i canti a quella età d’innocenza e di felicità, che chiamarono età dell’oro.

Il sensualismo soltanto fece loro cacciar nell’oblio, o rinnegare le più chiare testimonianze di ordine che Dio avea significato nell’opera sua: si confondono a dipingere le dolci e dilettevoli stagioni, gli animali docili sotto la mano dell’uomo, la terra producente ogni cosa senza cultura; taluni aggiungono a tali dipinture certi lampi della morale bellezza cui il mondo morale andava glorioso, come la semplicità de’ cibi, la temperanza ai desideri, e l’equità di cui fanno lamento di non ritrovare altro che un povero avanzo nella vita pastorale.

Ma il meglio loro sfugge; e la Bibbia additando un vestigio sorprendente del disordine attuale, ci rivela l’ordine già perduto col segno più espressivo, allorché insegna che il corpo umano, rivestito di santità, non avea nulla delle sue vergognose insolenze: « Entrambi, dice, erano nudi, e non ne avean vergogna ».

Poichè in origine nulla dovea ridurre alla confusione l’augusto aspetto dell’uomo; tanto il pudore, quanto il pentimento, sono virtù di una natura offesa e che sente la sua infermità, e non mica il privilegio di una natura innocente e invulnerabile; il pudore somiglia ad un velo disteso dall’anima sulle sue rovine.

L’uomo e la donna creati nell’età perfetta della vita, arricchiti de’ doni della natura e della grazia, furono messi nell’Eden, o paradiso terrestre.

Intorno alla situazione di questo luogo di delizie non v’ha nulla di deciso; gli scrittori hanno diverse opinioni, e chi lo mette nell’Armenia, chi nella Palestina, altri nelle pianure della Caldea.

Quel che può dirsi di certo si è che bisogna collocarlo in Asia, in quelle regioni in cui, sopra le rovine ammonticchiate dalle guerre e dai secoli, e malgrado i mutamenti che hanno degradato il globo ed alterate le stagioni, il viaggiatore ammira tuttora esempi di maravigliosa fertilità, luoghi ammirabili e un cielo puro e caldo di quelle tinte splendide, di cui i climi nostrali danno come a dire un gelido e languido riflesso.

L’Eden fu piantato sin dal principio, vi si ritrovavano tutte le specie di alberi belli a vedere e ogni maniera di frutta grate al gusto, una fonte copiosa l’annaffiava e poi si spartiva in quattro fiumi. Il verde, i fiori e i profumi, la purità della luce e il sereno de’cieli che ricreavano i sensi dell’uomo, erano siccome immagine de’ più alti godimenti di cui l’anima sua viveva.

Ancora non conosceva nè la disobbedienza, nè l’ infelicità; custode del terrestre paradiso, egli lo lavorava per diletto e non già per doloroso esercizio. Ahimè! e il giardino e la felicità scomparvero: di quello rimane qualche traccia nella grandiosa e ricca natura dell’Oriente; di questa noi serbammo un melanconico sovvenire, cui nulla può nè appagare nè estinguere.

Due alberi notevoli fra tutti gli altri erano in quel giardino, l’albero della vita; detto così, perchè dovea partecipare all’uomo l’immortalità, giacché Dio annette i suoi benefici a ciò ch’Egli vuole, le cose più nobili alle condizioni più umili; e l’albero della scienza del bene e del male, che non ebbe forse questo nome, se non perchè toccandolo, contro il divieto divino, l’uomo conobbe tutto il bene perduto, e tutto il male che si tirò addosso.

Or Dio disse all’uomo: « Mangia d’ogni albero del paradiso; però dell’albero della scienza del bene e del male non mangiarne; perchè in qualunque giorno tu mangerai di quello, morrai di morte » (Ib. I, 47). Precetto parimente intimato alla donna.

I ciechi elementi del mondo materiale addivengono ciò che una forza invincibile li costringe ad essere, e vanno dove quella li sospinge; ma gli spiriti debbono essere governati da leggi contro cui possono resistere, epperò son liberi; ma rimangono inescusabili se le violano, perchè possono adempierle. Dio, signore assoluto di ogni cosa, diede un comandamento; sapienza infinita, prese a materia del suo precetto un oggetto sensibile; a motivo della nostra natura complessa, e nella sua bontà, diede un ordine di facile adempimento; perché se la vita non lasciava di essere innocente, non dovea esser piena di difficoltà.

La libertà adunque rendeva possibile il male; qualche cosa lo rese seduttivo; la ribellione si fece visibile, assunse un linguaggio specioso, e venne a muovere assalto all’uomo.

Eranvi altre creature intelligenti e libere, ma non vestite di corpo; Dio avea sottoposti alla prova tutti quei puri spiriti, e molti soccombettero. Come stelle sbalestratesi dalla forza che ritenevale dentro la loro orbita, e che vanno ad aprirsi una nuova via tra spazi ignoti, cosi si sottrassero dalla mano di Dio con una specie di spaventosa fuga, e il delirio della loro indipendenza si mutò nell’agitazione e nel dolore di un rimorso inesorabile.

Perché fuggirono dalla luce e dall’amore, caddero nelle tenebre; naturale punizione degli spiriti; e nell’odio, ch’è il castigo più atroce de’cuori. Dall’abisso della sua miseria uno di quegli angioli decaduti vide la felicità dell’uomo, e n’ebbe gelosia. Assunse forma di serpente, per insinuarsi nel cuoreche voleva sedurre, e per mettere in rovina, nella propria loro sorgente, tutti que’godimenti il di cui spettacolo era a lui si orribile.

Poteva di certo avvolgersi sotto tutt’altra figura; ma sonovi certe secrete attinenze di analogia fra le cose visibili e le invisibili; e veramente in forza di codesta legge e di una disposizione provvidenziale, invece di presentarsi sotto la forma di qualche nobile e maestoso animale, il tentatore prese quella di un serpente: perocchè havvi non so che immagine di fraude e di codarda perfidia nel fare di questo rettile, che si avanza strisciandosi, ed uccide accarezzando.

Mosso dal reo spirito il serpente si avvicina alla donna, senza che questa lo paventi, perchè allora gli animali tenevansi in una naturale sudditanza di fronte ai loro padroni, e le parla senza ch’essa ne maravigli, perchè un animale che muovesse l’aria con suoni articolati, non poteva sembrare un’eccezione, quando tutte le cose nuove e inesplorate doveano essere reputate alla stessa maniera semplici e prodi; giose.

E il serpente disse alla donna: « Perché comando a voi Iddio che non mangiaste di qualunque albero del paradiso? » (Ib. III, 4). Non va da Adamo, per tema di non essere tosto scoperto e respinto; temeva certamente di dover venire a conflitto con un carattere circospetto, geloso dell’iniziativa e premunito della coscienza della sua forza contro qualunque estranea influenza.

Si rivolge alla donna, delicato e vivace organismo che vibra al minimo tocco e commuovesi al soffio più leggiero, anima inclinata alla espansione e alla confidenza, perché ha bisogno di appoggio, intelligenza illuminata dal cuore e adorna perciò di tutte le grazie, ma ancora di tutta la mobilità del sentimento.

Invece di usare del poter suo sul serpente e disprezzare la sua interrogazione col silenzio; invece di vendicare l'oltraggio fatto al Legislatore, la donna lasciò la sua dignità di regina, e si fece a discutere: « Del frutto degli alberi che sono nel paradiso, ne mangiamo; però del frutto dell’albero che sta in mezzo al paradiso, comandò a noi Dio di non mangiarne e di neppur toccarlo, perché non avessimo a morirne » (Ib. III, 3). La quale risposta non fu generosa nè leale; esprime il timore, e non già la riconoscenza o l’amore, ed involge in una forma di dubbio « ne forte moriamur » la minaccia assoluta del Signore « morte moriemim' ».

E il tentatore prese più ardire, e disse: « No, voi non morrete affatto. Imperù sa Iddio che in qualunque giorno voi mangerete di quello, si apriranno gli occhi vostri, e sarete come Dii, conoscenti il bene e il male » (Ib. 45).

Non poteva più sfrontatamente mentirsi. Tra due parole contradittorie di cui una apparteneva a Dio e l’altra al serpente, la scelta era facile; ma la prima era piena di terrore e obbligava, mentre la seconda si offriva con gradite promesse e lusingava gl’istinti della indipendenza. Cosi il male si maschera agli occhi nostri sotto le apparenze del bene; oppone ingegnosamente al giogo della virtù e alle gravità del dovere l’immagine di un piacere che somiglia alla libertà e alla felicità; ah! quanto simile a que’ fuochi ondeggianti la notte sopra le paludi, che attirano il viaggiatore a mettere il piede sugli abissi.

La donna avea già piegato con troppa compiacenza il suo orecchio al serpente; ed avea mal custodito il suo cuore contro il desiderio e la speranza di conoscere ogni cosa; la ribellione cominciava a dichiararsi nell’intelletto: l’orgoglio già vi era passato; i sensi, compagni e sudditi dell’animo, ne aveano risentito il crollo: cosi come vedesi il viso de’servitori allegrarsi alla gioia od offuscarsi alla tristezza che si dipinge sulla fronte di un padrone degno di rispetto; e però divennero sediziosi alla loro maniera.

La donna rimirò l’albero proibito; il frutto le parve buono a mangiarsi e bello e grato a vedersi; e questo era il colpo estremo con cui veniva rovinando una fedeltà scossa e vacillante nel suo fondamento. I sensi affascinati riagirono contro lo spirito che non seppe tenerne il governo, e lo spirito fu vinto. La donna prese il frutto, e ne mangiò.

Tosto il serpente si tenne più sicuro della femmina che di se medesimo; egli svanisce, e lascia comparir lei. Quella natura or ora si fiacca a resistere, addiviene possente per vincere; ella atterrerà quell’uomo, cui il padre della menzogna non osa neppur tentare di trarre in inganno; - dappoichè l’uomo è sostenuto da naturale ardimento s’è chiamato a lottare contro ciò ch’è forte, ma vien tradito dal suo cuore se questa lotta è contro ciò ch’è soave e fragile.

Quindi Adamo fu tratto più dalla compiacenza che determinato da alcun raziocinio; cosa amara e crudele parvegli senza dubbio il voler contristare con una repulsa la sola e cara società che si avesse; ei si sentì piegare, ed il cuor suo ammollito cadde trascinando lo spirito nella sua propria caduta: la donna diede del frutto al suo marito, che ne mangiò confessa, ed obbedì alle medesime lusinghe di orgoglio e di sensualità! In sull’istante i loro occhi si aprirono; non però per quei gloriosi splendori che il serpente diede a sperare: fu un destarsi che rapì le illusorie ricchezze ch’eran venute in un sogno.

La nudità, coperta insino allora dalla semplicità e dal candore dell’innocenza, divenne come un peso insopportabile, e, cosa ancor più trista, essa era l’effetto e a così dire l’espressione di una denudazione e di un’indigenza al tutto spirituale.

L’anima cessò di regnare da regina nel suo impero; nelle opere di Dio vide non so che di vergognoso, e riconobbe la sua degradazione nel rompersi di quella armonia. I due rei coprironsi di foglie di fico, intrecciate a maniera di cintura.

Questo fu il primo delitto onde venne contaminata la terra; e in quello tutti i delitti posteriori hanno la loro causa originale e il loro tipo. - Da tutte quante le creature sorge una voce che parla di gloria e di piacere; la nostra curiosità l’eccita, l’ascolta e le risponde. La voce molle ed aggradevole si abbella di armonia, e tiene tutte le nostre potenze incatenate alla dolcezza de’suoi accenti.

La necessità del coraggio, la bellezza della virtù e la sanzione della legge allora pare non offrano più nulla che valga ad allettare e a tener saldi; la sola disobbedienza ha serbato per noi magiche attrattive. I sensi si
ribellano, il cuore vacilla, il pensiero si ottenebra, l’uomo abdica , vinto, come in principio, dalla sensualità e dall’orgoglio: rassomigliante ad un’antica quercia già squarciata dalla folgore, e che viene dall’impeto della tempesta rovesciata da quel canto donde i venti inclinaronla nella sua giovinezza; perocchè l’umana natura rimase ferita nelle facoltà che essenzialmente la costituiscono, e spoglia de’ doni mirabili della grazia, de’quali originariamente era stata arricchita.

Lo spettacolo di tali rovine fu quello che conturbò l’antica scienza. Plinio domandavasi se il nascere sia dunque un delitto; Cicerone parlava dello stato attuale dell’anima nostra come di una decadenza; Pitagora e Platone lamentavano che un vizio primitivo abbia corrotte ed alterate le nostre forze.

In una parola, i filosofi riguardavano la vita presente come un’espiazione di una vita anteriore; e i popoli, dichiarando la parola de’savi, ricercavano il rimedio alla miseria comune nei sacrifizi e nello spargimento del sangue.

Il fallo era commesso; e la giustizia dovea avere il suo corso. Dio fece il processo de’nostri parenti peccatori; una forma sensibile ne rivelò la presenza: i due rei sentirono per l’Eden come il rumore de’suoi passi; era vicino a sera: l’uomo e la donna, che pensavano velarsi ai propri sguardi colle foglie intrecciate, ritiraronsi atterriti fra gli alberi del paradiso per sottrarsi alla faccia del Signore.

Ma la sua voce li raggiunse: « Adamo, ove sei tu? » Nella quale parola eravi più di compassione che (l'ira, come se avesse detto: La tua fuga ei tuoi timori fanno conoscere il tuo fallo: da che altezza sei tu caduto, in che ruina ti sei inabissato.  

L’eco di questa voce misericordiosa e severa risuona anche oggigiorno fra gli uomini, e tutti coloro che hanno fatto il male l’intendono; quella voce è il rimorso.

Dopo la violazione dell’ordine prescritto, il dovere conculcato e la virtù offesa si rizzano nella coscienza come uno spettro. E l’anima indarno si tormenta per calmarlo o per isfuggirlo; egli la insegue, le si avvinchia e la strazia; e quand’ella s’immerge in una vita tutta sensuale, come per volere schermire lo spettro domestico, egli la coglie fra le braccia stesse della voluttà, e talvolta l’agita fra luttuosi terrori al suono di questa parola vendicatrice:« Dove sei tu? ». Adamo rispose: « Udii la tua voce nel paradiso; ed ebbi timore, perchè sono ignudo, e mi nascosi ». E Dio disse: « E chi indicò a te di essere ignudo, se non perchè mangiasti dell’albero, del quale io ti avea comandato di non mangiare? » (Ib. III, 40, H). Il Signore si rivolge in prima al reo principale: Adamo, come più forte e più grande nella sua origine, diveniva più ingrato nella disobbedienza; chè verrà chiesto di più a chi avrà ricevuto di più (San Luc., XII, 48).

E Adamo rispose: « La donna che mi desti a compagna, mi diede del frutto, e ne mangiai ». (Gen. ib. 42). Ed egli vuole in tal modo fare ascendere insino a Dio la responsabilità della sua colpa, come se Dio gli avesse rapito intendimento e libertà, accordandogli una compagna: la donna che tu mi hai data, dice.

Pescia, invece di risparmiare la vergogna di una confessione a colei ch’egli avea amata e volontariamente seguita nella ribellione; invece di stendere su di lei la generosità del suo sentimento, l’abbandona con egoismo, e l’opprime col peso l’un’accusa vigliacca: la donna m’ha presentato del frutto.

Forse è da dirsi che nella confessione della donna scorgesi più rettitudine; giacché quand’ella viene accusata di aver trascinato l’uomo alla ribellione, Dio le dice: « Perché tu hai fatto questo? » Ella rispose semplicemente: « Il serpente m’ingannò, ed io ne mangiai » (Ib. 13).

Tuttavia neppure la di lei confessione ha l’impronta di quel possente pentimento che merita ed ottiene i grandi perdoni.

Queste povere anime umane stentano tanto a studiarsi, a conoscersi e a rendere testimonianza delle loro proprie infermità! Se per altro è permesso di biasimarle è giusto ancora di compiangerle; perocchè ci vorrà sempre maggior fatica a rialzarsi da una caduta che non v’era difficoltà a mantenersi nella integrità della propria forza.

Finalmente il Giudice proferì la sentenza; e disse al serpente: « Perchè tu facesti questo, tu siei il maledetto fra tutti gli animali e le bestie della terra; striscerai sul tuo petto, e mangerai terra per tutto il tempo di tua vita » (Ib., 44-).

Così ciò ch’era naturale al serpente fu assegnato come un memoriale del tentativo a cui era servito, e il suo alimento, trascinato tra la polve e tra il fango, rammentò il suo castigo.

E Dio aggiunge: « Porrò inimicizie tra te e la donna, e tra il seme tuo e il seme di lei. Ella stritolerà il capo tuo, e tu insidierai al suo calcagno » (Ib. 45). Il tentatore fu dunque colpito in sè medesimo e nell’animale di cui erasi servito; maledetto dal genere umano, invece di riceverne gli onori conceduti ai buoni angeli; nemico pieno di astuzia e di malizia, ma schiacciato dal Figlio della Donna, e gettato nella polvere dove lo ridusse la vittoria del Verbo incarnato.

E, cosa veramente rimarchevole, la maggior parte delle antiche nazioni furono nella persuasione che il serpente nascondesse qualche tenebroso e malefico spirito; gli attribuirono facoltà maravigliose, e gli resero un culto inspirato dal terrore: tanto la memoria del suo tradimento fu durevole, e possente la maledizione di Dio!

Disse anche il Signore alla donna; « Moltiplicherò le tue spine e le tue gravidanze: partorirai i figliuoli nel dolore, e sarai sotto la potestà dell’uomo, ed egli avrà dominio di te » (Ib. 46).

Ed infatti, il dolore fu per sempre aggiunto alla fecondità; e ciò che non sarebbe stato se non gloria e gioia delle madri, doventò per loro un pericolo e talvolta un supplizio.

E in senso contrario all’ordine instituito in principio, la donna cadde in uno stato di soggezione rispetto al marito, e la sua dolce supremazia venne per lunga stagione a mutarsi in aspra e gelosa dominazione. Cosa mai può agguagliarsi al dispotismo che una metà del genere umano fece pesare sull’altra quasi in ogni luogo per la durata di quaranta secoli? Noi non sappiamo significare altrimenti ciò che si fosse la donna ne‘costumi e nella legislazione de’pagani.

Neppure al presente essa è rialzata da tal degradazione fra’popoli che non hanno appreso ancora dal culto della Croce il rispetto della debolezza; i popoli cristiani, partecipando alla donna una venerazione affettuosa, sono i soli che l’abbiano protetta contro la propria fragilità econtro la dura tirannia dell’uomo: ed ella, sotto la tutela de’costumi e delle leggi che l’Evangelo ha fatto fiorire sopra la terra, può praticare la libertà senza usurpazione, e la sommissione senza avvilimento.

Dio disse poscia all’uomo: « Perché ascoltasti la voce della tua moglie, e mangiasti dell’albero, del quale io avea a te  fatto comandamento che tu non mangiassi, in cotesta opera tua, maledetta la terra: mangerai di quel che frutta con molto lavoro in ogni giorno della tua vita. Ti germoglierà spine e triboli: e mangerai l’erba della terra. Nel sudore del tuo volto mangerai del pane, finché ritornerai in terra, onde sei tolto; perocché polvere sei, e in polvere tornerai » (Ib. 17,48, 49).

Lavoro con istanchezza, umiliazione nella morte, punizione e rimedio della sensualità e dell’orgoglio de’ nostri primi parenti, questo fu il retaggio assicurato a tutti quanti i figliuoli di Adamo. Spirito generoso, cuore ardente, tradito da forze ribelli o troppo deboli, l’uomo domanda ad ogni cosa, con una speranza non iscoraggiata mai da nulla, una felicità che da nulla egli ottiene mai.

La sua memoria gli parla di un regno perduto, e le sue gelose brame altro non invocano che la gloria e l’immortalità. Tutto gli è venduto a prezzo di dura fatica, a prezzo de’ suoi sudori e del suo sangue: tutto, la fortuna, la reputazione, la scienza, la virtù.

La sua esistenza ha sembiante di una rovina, tanto è misera, e del sogno di una notte, tanto è veloce.

Grida, lacrime, scarso sorriso, molti dolori accumulati entro un piccolo giro di giorni, rare e fugaci gioie inebriate di amarezza, tutte cose trascinate dall’impeto del tempo verso il sepolcro; nascere, piangere e morire, ecco ciò che chiamasi vita.

Trista e nondimeno cara illusione! Adamo destinato alla morte per Divina sentenza, e sapendo che altri uomini doveano nascer da lui, diede alla sua consorte il nome di Eva, che segna la vita, perch’ella dovea essere la madre di tutti i viventi.

Pescia entrambi vestironsi di pelli di animali, secondando Iddio la loro intelligenza e inspirando il primo sforzo dell’industria, che veniva ad allenire i mali dell’esistenza e a rendere le cose più triviali e più indispensabili aggradevoli e belle: come creazione secondaria in cui l’uomo rifà ad immagine della sua intelligenza la
materia sottoposta ai suoi bisogni.

Finalmente Dio dice, con una specie di paterna ironia: « Ecco che Adamo si è fatto come un di noi, conoscitore del bene e del male: or dunque che non istenda la sua mano e prenda anche dell’albero della vita, e ne mangi e viva in eterno »  

E fra le sue sante e formidabili derisioni, cacciò via i rei dal giardino di delizie, e l’entrata ne rimase difesa da un Cherubino, angelo di luce armato di una spada di fuoco.

E da quel giorno in poi la vita, mutata in esilio tenebroso, ha sembianza di un sonno penoso in cui il dolore ci culla, aspettando l’ora della morte ch’è l’istante del risvegliarsi.

Eva generò un figlio, e, come a consolazione della sua mortalità, gli diede il nome di Caino, dicendo: «Possedetti un uomo per opera di Dio » (Ib. IV, 2). Ebbe un secondo figliolo, cui diede nome Abele; che vuol dire vanità, certamente per significare la fragilità della vita.

Caino coltivava la terra, ed Abele prendeva cura delle pecore. Entrambi sacrificavano al Signore parte de’beni che ne ricevevano; però le disposizioni del loro cuore erano ben diverse. Caino offriva le primizie de’suoi ricolti, ma con tale scarsezza che facea bene accorgere della meschinità della sua fede; ma Abele mostrava la pietà dell’anima sua nella scelta e nella bellezza delle sue vittime.

Dio non guardò collo stess’occhio i doni de’due fratelli; Abele fu prediletto. Caino fu preso da ira violenta, e l’invidia trapelava dal suo volto. Disse a lui il Signore: « Perchè sei adirato? e perché porti il viso abbattuto? Forse se tu opererai bene, non ne avrai ricompensa; e se male, tosto il peccato non sarà alle porte? Ma la voglia di esso starà sotto di te, e tu potrai domarla » (Ib. 6, 7).

Caino non diede punto ascolto a questo avvertimento; e un giorno disse al suo fratello Abele: « Usciamo fuori ». E venuti al largo, l’uccise. Il Signore, cui nulla si rimane occulto, disse a Caino, per farlo rientrare in sè stesso: « Dov’è Abele fratello tuo? » e quegli rispose: « Non so; forse il custode del mio fratello son io? ».
E Dio gli disse: « Cosa hai tu fatto? la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra. Or dunque sarai maledetto sopra la terra, che aperse la sua bocca, e ricevette il sangue del tuo fratello dalla tua mano. Per quanto tu l’avrai lavorata non darà a te i suoi frutti: sarai vagabondo e profugo sulla terra » (Ib. 8, 9, 40, 44, 42).

La morte ha già compiuto atto di autorità sopra l’Uomo. L’egoismo, la gelosia, l’ambizione, tutte le passioni e tutti i delitti invadono l’universo; i più sacri doveri, i sentimenti più teneri e più forti saranno rinnegati e calpestati sotto i piedi.

L’effusione del sangue contrassegna l’origine della primitiva società, fondata pertanto sotto la mano di Dio, con elementi che ad ogni patto pur tendono ad avvicinarsi e a mettersi in armonia;cosa avverrà dunque quando le famiglie si disuniranno allontanandosi dalla loro culla, e quando le diverse società non saranno altro che centri d’interessi moltiplici e repugnanti fra diloro?

L’istoria apparirà come una gran tragedia interminabile, ripiena delle sventure della virtù sempre perseguitata, e dove il vizio verrà sovente ad espiare lo scandalo della sua audacia nelle agitazioni e nelle pene raffigurate dalla vita errante di Caino.

Il fratricida conturbato dalla maledizione del suo Giudice, invece di schiudere l’anima sua al pentimento, si gettò in braccio alla disperazione, e va dicendo al Signore: « La mia iniquità è più grande di ogni perdono.

Ecco tu oggi mi cacci via dalla faccia della terra, ed io mi nasconderò dalla tua faccia, e sarò vagabondo e profugo per la terra: chiunque mi troverà ucciderammi.

E il Signore gli disse: « Non sarà così, ma chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui. E pose il Signore un segno sopra Caino, perchè chiunque l’incontrasse non l’uccidesse » (Ib. 43, 44, 4 5).

Caino cessò di abitare con suo padre e con sua madre, e si ritirò verso la regione orientale dell’Eden.

Dio consolò l’affilizione di Adamo e di Eva concedendo loro un figlio nella voce di quello che aveano si miserabilmente perduto.

Eva lo chiamò Seth, a significare che tutte le sue speranze erano ormai fondate in questo; egli fu giusto come Abele, e la sua posterità adempì i precetti del Signore, frattanto che quella di Caino camminava in quella segnata dal suo padre sciagurato. Adamo ed Eva ebbero degli altri figli e figlie, che si unirono in matrimonio e propagarono così l’umana razza.

E per tal modo Dio fece discendere tutti gli uomini dal medesimo stipite, affinché avessero sempre a ricordarsi, malgrado l’intervallo de’tempi e de’luoghi, d‘esser tutti fratelli, e che la differenza d’interessi, di abitudini e di leggi non son motivi per dividere coloro che sono congiunti dal vincolo si dolce e si indissolubile di una comune origine.

Adamo visse novecentotrent’anni. La longevità de’ primi uomini viene generalmente attribuita alla forza del loro temperamento, alle qualità naturali degli elementi che ricavavano da una terra tuttora giovane, e alla loro maniera di vivere semplice e frugale.

Aggiungasi che la Provvidenza, che creò il mondo coll’amore voleva governarlo con sapienza, e che però entrava ne’suoi consigli il conservare lungo tempo gli uomini, e per la rapida moltiplicazione della specie, e per la istruzione delle nuove schietto; giacché i patriarchi aveano numerosa figliuolanza, e carichi di parecchi secoli, parevano come fermi davanti alla soglia del sepolcro a rendere testimonianza degli antichi giorni al cospetto di varie generazioni insieme assembrate.

Quanto ad Eva, non si sa nulla di preciso circa all’epoca in cui morì; certe tradizioni antichissime sorreggono il sentimento ch’ella abbia sopravvissuto alcuni anni ad Adamo. Taluni, principalmente coloro che collocano l’Eden nella Palestina, pensano che i nostri primi parenti fossero sepolti sul monte Calvario, vicino a cui si allarga, com’è noto, la valle di Giosafat, dove verranno le anime ad assistere al loro giudizio supremo.

E di vero non vi sarebbero per le cose, come per le persone certe destinazioni riservate? e non sarebbe forse
conveniente che il dramma solenne, il quale ha nome della vita dell’umanità, che nell’unità d’azione ricolmerà la serie tutta quanta dei secoli, rappresenti in un medesimo luogo i tre grandi atti, onde e composto: la caduta, la redenzione e il giudizio?

Piena è la terra e del nome e delle sventure di Eva, nostra madre comune; frammisti ai principali avvenimenti per noi descritti, essi trapelano in maniera più o meno chiara nelle cosmogonie e nelle narrazioni storiche de’popoli antichi, m’anche nelle tradizioni sfigurate delle orde idolatriehe e selvagge, abitatrici del nuovo mondo, al momento che fu conosciuto.

Secondo gl’lndiani, e i Persiani, e la maggior parte delle nazioni del vecchio Oriente, e i Natchez e i Messicani, l’uomo fu creato puro; poi la sua natura si corruppe, e tutte le sciagure onde fu colpito derivano dalla credulità della donna ingannata dal serpente.

La poesia cristiana ha spesso cantato con tutta la pompa del suo linguaggio i memorabili avvenimenti che fissarono la sorte dell’umanità. Il Tasso cantò i sette giorni della Creazione; Vida, Sannazzaro ed altri di minor celebrità dipinsero con grazioso colorito alcune scene del paradiso di delizie; ma in questo sì fecondo e difficile argomento il capo lavoro è il Paradiso perduto di Milton.

Altissima potenza d’invenzione e vivo splendore d’immagini celano, o per lo meno compensano tutte le critiche, cui forse il senso squisito della letteratura possa aver diritto di fare intorno a questo severo e stupendo componimento.

Eva innocente apparisce soave e maestosa, adorna di grazie e di nobiltà; Eva colpevole addiviene timida, insinua le astuzie nella parola, ma si rimane possente per le sue lacrime, e Dio le lascia nella caduta qualche riverbero della sua gloria primitiva, ciò che la irradia di un certo rispetto misto a spavento, a maniera di una guardia angelica.

Le arti hanno preceduto o imitato la poesia. Le particolarità principali della creazione, e principalmente l’isteria della nostra prima madre offersero campo bellissimo al disegno, alla pittura, alla scultura.

Le catacombe, la cappella Sistina, il Vaticano, le porte del Battistero di Firenze, il Cimitero di Pisa, i portici di Reims e di Strasburgo, i vetri delle nostre antiche chiese, le Bibbie e i Messali gotici riproducono qualche tratto della vita di Eva, la sua creazione, la tentazione, la caduta, la penitenza.

Il beato Angelico di Fiesole, Ghiberti, Niccolò di Pisa, Cimabue, Michelangiolo, Raffaello, pittori o scultori, hanno dipinto sopra tele immortali o scolpito sul marmo le delizie e le sventure dell’Eden.

Fra questi tesori dell’arte cristiana, forse bisogna mettere in prima linea, per la composizione, per l’atteggiarsi e per la bella posizione delle teste, il quadro sì noto del Domenichino.

Ivi si vede Iddio che rimprovera all’uomo il suo disobbedire, Adamo che accusa la sua donna, ed Eva che rigetta la colpa sul serpente; fa triplice azione è ritratta con una squisitezza di sentimento che lo spettatore non può fare a meno di partecipare all’ansia degli avi nostri, che aspettano dalla bocca del loro Giudice supremo la sentenza meritata; non pertanto la giustizia del Giudice non cancella la misericordia, e dal suo aspetto s’indovina che ormai rimangono due vie di salute; l’innocenza e il pentimento.


(1852, Abate G. Darboy, trascrizione del testo originale)

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