Usi funebri Sardi

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Usi funebri Sardi

Luigi Albano
Pubblicato da Cav. Luigi Albano in usi e costumi · Giovedì 02 Nov 2017
Tutti i popoli della terra hanno avuto per i morti culto e venerazione speciale ed il render loro onori funebri era in uso anche fra i Barbari.

Gli Ebrei ed i Cristiani hanno sempre gareggiato  fra loro nel preparare e rendere onori ai loro morti il più sontuosamente possibile, come se in tale atto volessero far mostra dell'intensità e sincerità del dolore.

Mano mano che la filosofia di Cristo si sparse onnipotente sulla terra, i popoli sentirono l'influsso poderoso delle sue dottrine e lo rivelarono - oltre che nelle preghiere - negli usi e nelle abitudini domestiche e specialmente negli accompagnamenti e nelle commemorazioni funebri.

I Sardi, allora come adesso abbandonati nella loro splendida isola, tenaci conservatori delle tradizioni dei loro antenati, parrebbe che con la nuova credenza non cambiassero se non per la divinità e l'apparato esteriore imposto dalla nuova Chiesa nelle pubbliche cerimonie religiose, ritenendo nelle abitudini domestiche una parte di quelle diventate ormai incancellabili dal loro animo.

II popolo più tenace nel conservare intatte le sue abitudini è per natura sua più restio a modificarle e rimane perciò unico custode delle più antiche tradizioni, le quali le sa tramandare inconsciamente dalle epoche più lontane.

Spicca il carattere del Sardo negli usi e nelle cerimonie funebri, nelle feste nuziali, nei ludi guerreschi, nella caccia, nel canto, nei balli pubblici e più specialmente nella vita individuale e nella intimità delle famiglie.

Sul letto di morte del Sardo, in quei letti caratteristici, composti di un materasso posto in terra accanto al focolare, detto campalellu - quasi letto di campo - stà silenziosa e senza lacrime la persona più cara, ansiosa e tremante all'appressarsi dell'istante supremo.

Ha nella destra una candela di cera accesa per la prima volta - simbolo della fede cristiana pura - pronta a ninnare - fare il segno della croce - per colui del quale già sente fuggire 1'estremo respiro.

Fissando mestamente il caro volto mentre è certa che nessuna speranza le rimane, trova ancora qualche parola d'incoraggiamento al moribondo clie, inconscio, non la sente.

Egli muore e la mano amata lo segna con la candela accesa, quindi le chiude la bocca perchè i segreti della sua vita ornai trascorsa non gli sfuggano e pervengano ad orecchie di persone profane e mal fidate.

Chiude gli occhi che guarda un'ultima volta, mentre le lacrime le scorrono cocenti sul viso.

Con voce di pianto chiama il caro estinto per nome - come per accertarsi che sia veramente morto - ripetendo tra i singhiozzi: coro, coro, coro - cuore, cuore, cuore - manda doloroso lamento di morte l'ultimo addio al caro trapassato.

Quindi, affinchè al morto non fugga di casa la fortuna - saguru -  gli si tagliano le unghie o gli si recide una ciocca di capelli dalla parte superiore del capo che sarà ben custodita in un angolo remoto della casa per la protezione (talisman).

Alcuni degli astanti invece danno sfogo al dolore piangendo e rumorosamente gridando, strappandosi per il dolore i capelli dandosi dei pugni sulla testa o sulle anche o graffiandosi il viso, mentre gli altri provvedano a lavare accuratamente il morto a pettinarne i capelli ed a rivestirlo degli abiti più belli e per lo più cuciti premurosamente a nuovo negli ultimi momenti dell'agonia.

Intanto la porta di casa rimane chiusa e solo quando il morto è decentemente vestito e disteso in mezzo alla stanza con i piedi rivolti all'uscita con tre donne che devono piangerlo sedute intorno, si apre la porta di casa e si manda quindi ad annunciare al prete o al sacrista della morte avvenuta affinchè il suono lugubre della campana annunzi al popolo - silenzioso al funebre rintocco - che una vita si è spenta e lo invita alla preghiera.

Le visite affluiscono appena la notizia si diffonde, le donne entrano silenziose con le gonne nere fluttuanti sulla sottana candida, che spunta vagamente pieghettata alla estremità del furèsi — gonna nera  — e col corsetto rosso — corìln — rivolto alla parte meno ricca di ornamenti e di fregi, fanno il segno derlla croce alla vista del morto; coprono la bocca col luppóne — lembo dello scialle che avvolge loro il capo e che esse alzano sul mento,  che fermano sulla punta del naso in segno di lutto — e quindi si siedono in terra poggiate sulle gambe piegate come donne orientali negli harem, serie, maestose e voluttuosamente belle.

Al capo del letto mortuario ed ai suoi lati stanno a piangere le donne che per parentela od amicizia, furono al morto più care, le altre secondo il loro grado di parentela fan siepe attorno interrompendo di tratto in tratto i singhiozzi col narrare le virtù dell'estinto, i grandi suoi patimenti nella malattia, gli ultimi suoi istanti e come fu lenta o precipitata l'agonia - sa mola - .

Gli uomini, per lo più ritirati in un'altra stanza, discorrono pacatamente fra loro finche una nenia lenta lenta e monotona li interrompe.

E' una nenia che modula il suo canto mortuario semplice ed appassionato a simiglianza delle prediche antiche. Questo canto interrotto dal coro, coro lungo e lamentevole non è accompagnato né da suòni, né da musiche, come quello delle prediche degli Ebrei, ma da singulti e da gemiti.

Le naeniae o mortualia dei Romani, recitate quasi egualmente per tutto danno l'idea di queste piangitrici prese a nolo — con una maggiore o minore retribuzione.

Tra i Sardi però — sebbene qualche donna segua per secolare tradizione il costume romano, e pianga e canti spesso per morti non parenti  né amici — conserva nella maggior parte una tale dignità e riservatezza circa i doni che a loro venissero offerti, per cui è raro il caso in cui vengano accettati.

Delle astanti, alcune rispondono con versi inspirati all'amore e al dolore che restano indelebilmente impressi nella memoria di chi li ascolta.

Le lodi che vengono tributate ai morti se hanno del tenero e dell'affettuoso non mancano spesso delle solite esagerazioni e degli immeritati encomi. Cionondimeno questi versi armoniosi cantati da donne piangenti e dondolanti leggermente con il capo, con le mani rivolte al defunto, toccanti la fronte o le fredde mani di questi, imprimono un tal senso di mestizia e di pietà,da lasciare una traccia incancellabile nell'animo più duro.

Gli attilos assumono una speciale importanza quando s'improvvisano piangendo qualchemorto di morte violenta; quando si piange e si canta su uno di quei tanti assassini, di cui troppo spesso siamo testimoni in Sardegna.

In questi casi le donne col capo scoperto coi capelli sciolti e sparsi gareggiano a vicenda per accendere nei superstiti l'amore della vendetta; per ricordare odi ed offese dimenticate da tempo e  per rendere la perdita più acerba ed indimenticabile enumerano le circostanze che accompagnarono o furono causa della morte, le ferite, i patimenti fatti soffrire al caduto, lasciando agli astanti — specialmente sui giovani — una impressione d'odio e di vendetta feroce.

Questi canti furono un esca non ultima a ridestare e tener vivo di padre in figlio il sentimento dell'odio, ad innalzar la vendetta a divinità, a far nascere e conservare nella mente dei figli e dei nipoti una mal compresa compiacenza per la virtù degli avi cosi pronti a vendicarsi ed a spargere il sangue del nemico.

Ad interrompere questo piagnisteo viene la notte, essendo le donne che vi prendono parte condannate ad una perpetua immobilità per tutta la giornata e solo allora possono prendere un po' di cibo prima del riposo.

In molti comuni, ad Orune per esempio, le donne che circondano il morto piangendo, non prendono alcuna sorta di cibo, finchè il morto non è seppellito.

La sera che precede il seppellimento ha luogo la veglia che si fa con parecchi uomini, parenti per lo più del deceduto i quali, dopo aver ritirato in un angolo della stanza o deposto sopra un tavolino e coperto d'un lenzuolo il morto, fanno la tradizionale cena di pane e miele, la quale se non si ha in casa è portata da altri del vicinato o da qualche intimo.

Essi si guardano bene dal toccare una parte della cena che è coperta e posta in un posto appartato della stanza nella ferma credenza che l'anima del trapassato vi si rechi di notte a ristorarsi.

Non è raro il caso in cui qualche gatto o qualche cane mangi del piatto riservato al morto ed allora si riafferma più la credenza che il povero defunto non volle andarsene all'altro mondo a stomaco vuoto.

La mattina per tempo le donne deposto il cadavere come il dì precedente, riprendono lo stesso atteggiamento; i pianti e gli attilos abbondano più che mai in attesa che si provveda al trasporto del cadavere.

Al momento che questo avviene, i lamenti, gli accenti di dolore assumono tale intensità e veemenza che non è possibile descriverli.

Avvenuto il spppellimento e dopo che il prete si reca alla casa del morto e la benedice ha principio su dòlu — il duolo, le condoglianze.

Le visite delle donne si ripetono per due o tre giorni consecutivi e quelle degli uomini per due o tre sere, occupate sempre a ricordare le virtù, la malattia e qualche volta l'eredità del morto e quindi rimane solo alla famiglia la cura delle altre cerimonie che hanno perciò un carattere intimo e privato.

Per celebrare meglio il settimo ed il nono giorno dell'avvenuta morte, la famiglia prepara la farina per fare sas panèddas — pane finissimo e saporito che appena si leva dal forno viene dato caldo caldo in dono alle famiglie del vicinato, ai parenti, agli amici e a tutti coloro che piansero o accompagnarono il morto alla tomba.

La famiglia poi si raduna a cena durante la quale le virtù dell'estinto son ricordate fra bocconi e lacrime.

Più caratteristica è però un altra offerta che per la sua originalità è più gradita al popolo. Il giorno settimo o nono dalla morte, nella famiglia dell'estinto è un continuo e tacito affaccendarsi di donne che fanno bollire enormi caldaie di maccheroni — i tradizionali maccheroni, di cui i Sardi che ne furono gli inventori vanno molto ghiotti — ed a grattare del cacio in gran quantità.

A misura che i maccheroni son pronti tre o quattro ragazze con le sporte sul capo vanno in giro dai parenti, dagli amici del vicinato e dai più poveri del villaggio portando ad ogni famiglia un piatto di questa vivanda ben colmo e fumante, dono che nessuno rifiuta in memoria del morto che si commemora.

Il popolo tiene molto a conservare quest'e usanze e nessuno può schermirsi nel farlo senza andare incontro alle acri censure dei suoi concittadini amanti delle proprie tradizioni, le quali acquistano un tal carattere di nazionalità fra noi da parere impossibile o almeno assai lontano il tempo di abbandonarle.

Chi invece è assolutamente povero, per ragioni facili a comprendersi si  astengono.

Lula 1894, O. Nemi (ortografia originale)


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