il cacciatore Tirolese - Luigi Albano

LUIGI
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IL CACCIATORE TIROLESE

I tirolesi sono gente nata per il bersaglio. Ciò che per l'ungherese sono il cavallo e le steppe per il tirolese sono la carabina e le montagne.
Non vi è casa in Tirolo in cui non si veda appesa un'arma. Bene spesso quelle armi sono veri oggetti di antichità, che starebbero meglio in un gabinetto d'antiquario; ma ì Tirolesi li conservano forse solo per far un poco di fracasso in certe feste e specialmente nel giorno del Corpus Domini.
Sorgente di dolci emozioni per il Tirolese è il bersaglio; in nessun altro paese, neppur nella Svizzera, l'uomo vi si esercita tanto, motivo pel quale, il Tirolo fu a buon diritto chiamato un gran bersaglio. La perizia che il tirolese acquista nel tiro e la natura stessa del paese in cui abita lo fanno un ottimocacciatore.
Il camoscio soprattutto è quello che più adesca i tirolesi a spingersi sulle vette delle Alpi, quantunque la caccia del medesimo sia la più pericolosa.
Si direbbe anzi che il pericolo eserciti su loro una certa attrattiva anche se è d' uopo convenire che non tutti i buoni cacciatori possono essere tali quando si tratta di far guerra al camoscio.
Per la caccia di questo animale si richiede un corpo avvezzo ad ogni genere di strapazzi, insensibile a qualsiasi improvviso cambiamento di tempo, buon occhio, calma, costanza ed un ardire a tutta prova. Di solito i veri cacciatori del camoscio sono uomini calmi, seri, piuttosto semplici, di poche parole, ed indifferenti a qualsiasi altro passatempo. All'avvicinarsi del mese di agosto, epoca in cui comincia la caccia del camoscio, una strana agitazione si osserva fra quei valenti tiratori: osservano il vento ed il tempo il più delle volte con barometri naturali, provano la loro carabina, apparecchiano tutto l'occorrente e di buon mattino abbandonano il loro tugurio.
L’abito dei cacciatori è semplice e al tempo stesso pittoresco; si compone di una casacca grigia, onde non distacchi dal colore delle rupi, di calzoni corti di pelle di camoscio con lunghe calze di lana e grosse scarpe da montagna, armate di chiodi e di un cappello da cacciatore con penne d'aquila.
Sulla spalla portano un sacco munito di due cordoni a guisa di gerla, in cui ripongono i viveri per quattro o cinque giorni, un pane nero, lardo e carne salata, e spesso anche una pendola con pentola con farina abbrustolita per fare un pò di zuppa sulle nevose vette dei monti.

Portano corde, ginocchielli e calcagni di ferro, per servirsene nelle salite e nelle discese; e ciò che più importa, il fucile con abbondanti munizioni, senza mai dimenticare il fiaschetto dell'acquavite e la pipa: bene spesso sono anche muniti di cannocchiale.
Un grosso bastone da montagna con punta di ferro completa l'armamento del cacciatore.
Questi si mette in cammino prima di albeggiare. Il più delle volte è solo. Quando vanno parecchi insieme prendono seco volentieri una pistola per tirare all'uno od all'altro camoscio, cercando così di ridurli in un sito dove presentino un facile bersaglio.
Finché vi sono boschi, la via si mantiene abbastanza comoda, ma dopo le difficoltà ed i pericoli vanno aumentando ad ogni passo.
Quantunque il cacciatore pratico conosca abbastanza i nascondigli del camoscio, tuttavia dura fatiche enormi e corre pericoli ad ogni istante.
Continua ad arrampicarsi per tutto un giorno, talvolta senza alcun esito e spesso bisogna che raccolga dei pezzetti di legno sparsi qua e là per non gelare nelle rigidissime notti d'autunno. Quello che egli ha a temere più di tutto è un improvviso temporale e la nebbia che non gli lascia discernere cosa ad un palmo di distanza: malgrado tutto ciò di rado si decide a ritornarsene a casa.
Se al cacciatore occorre di avere certi indizi di prossimo cambiamento di tempo, torna quasi indispensabile conoscere la direzione del vento, perocché questa può facilmente metterlo sulle tracce del camoscio.
A tal uopo egli si serve o di un capello o di un filo d'erba, ed il più delle volte della piuma che adorna il suo cappello. Appena gli riesce di rintracciarne qualche frotta, adagio adagio, seguendo la direzione del vento, e camminando carpone. Ora una rupe sporgente ed ora un avvallamento di terreno servono a nasconderlo.
ln ogni caso egli non spara mai prima che sia sicuro del tiro, quantunque riesca difficilissimo il calcolare bene la distanza a cagione dell'aria pura delle montagne. Egli deve poi, aver anche riguardo al terreno su cui va a percuotere la palla, dacché il terreno umido, l'erba e la pianura coperta di neve fanno abbassare le palle, mentre un terreno dirupato le fa innalzare. Il cacciatore mira per regola al petto o alla testa, e spara tosto che vede le corna.

Quando gli riesce di colpire, l’animale cade, oppure fugge in giù, e questo è un indizio più sicuro che la palla ha toccato il segno.
Né qui hanno termine le fatiche e i pericoli del cacciatore, il quale ha da pensare alla maniera di poter giungere al camoscio che giace ferito in qualche profondo burrone.
Gli ostacoli che gli si frappongono sono in certo modo aumentati dall'incalzare del tempo, perché un minuto di tempo può bastare perché gli avvoltoi si dividano la sua preda.
Raggiunto che abbia il camoscio, anzi tutto gli leva gli interiori, e per alleggerirne il peso e per impedirne la pronta putrefazione, e quindi ne fa cuocere il sangue ed il fegato, che costituiscono un cibo appetitoso e molto corroborante. Dopo di che lega il camoscio per i piedi, e lo dispone nel gran sacco che gli sta appeso di dietro, e comincia a discendere, il che riesce doppiamente difficile pel peso che porta sulle spalle, per cui pur troppo di sovente si hanno a lamentare delle vittime di un soverchio ardire che, essendo malissimo compensato, dà a conoscere quanto questi montanari tengano in poco conto la loro vita.
Tratto da L’Emporio pittoresco, giornale settimanale anno 1867.




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