usi e costumi - il Natale Potentino - Luigi Albano

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 IL NATALE POTENTINO
USO E COSTUMI DI ALTRI TEMPI

Non è meraviglia se si aspettava con vera frenesia il Natale, perché solo allora in tutte le famiglie, ricche o povere, con il fior fiore della farina di “carosella” si facevano i tradizionali piccilatiedd', che erano per i potentini come il panettone per Milano; piccoli di nome ma grandi e grossi di forma e di peso.

Che insolito affaccendarsi era in quei giorni per questi famosi piccilatiedd' simbolo di straordinaria e annuale esultanza!
Ma il momento più solenne e difficile era quando bisognava spianare e distendere la pasta, allora si chiamavano in aiuto le comari e le vicine più esperte e chi con una rotella di ferro o di ottone dentata, detta sprone, orlava a disegni il giro dei  piccilatiedd; e chi vi infiggeva mandorle mondate con le punte in fuori e ad ogni tratto esclamavano: ingraziatimi' Dio.
Ma prima di assaporare quel pane bianco, la famigliola doveva mandare giù nello stomaco per parecchi giorni il pane di faritiedd', cioè della farina di scarto che era nero, cruscoso e duro, come un pane da cane o da pastori e nella vigilia del Natale si stava a stomaco digiuno per meglio gustare lu piccilatiedd', e prepararsi con appetito al pranzo della sera.
Bisognava vedere come in quei giorni ogni donna si metteva in moto per la cerimonia culinaria, tradizionale e solenne della sera, divenendo anche la casa più umile e modesta un tempio di fede, di festa domestica e di tradizionale allegrezza!
Verso l'ora del tramonto non vi era casa, ove non si vedessero uscire colonne di fumo dalla “ciumminiera” e non si sentisse il nauseante odore del baccalà, o del pesce fritto alla padella o del capitone messo ad arrostire allo spiedo con larghi spruzzi di aceto e olio; o il tanfo delle fritture di “scrupedd'”, “strufuli”, paste di farina lattiginosa e indurita con torlo d'uovo, che si friggevano in olio abbondante e sopra si versava un poco di miele, facendo da piatto dolce per il Natale.
Cessato l'allegro e lungo scampanio delle chiese, ogni famiglia si metteva a tavola per mangiare.

Il capo della casa, pater familias, padre o nonno che era aveva messo lu “ciucculu” (ceppo) ad ardere, invocando le benedizioni e la divina assistenza del Bambino che doveva nascere, poi prendeva il posto di onore a tavola e prima di “ingignà lu piccilatiedd'”, cioè mettere il coltello per affettarlo, si scoprivano tutti il capo e si recitava il Pater noster e l'Ave Maria. Poi egli dava la benedizione e gli auguri alla famiglia, la quale glieli ricambiava con espressioni di reverenza e di affetto e i giovani ed i piccoli procedevano a baciargli la mano.
Anche allora qualche birichino di fìglio o di nipote non si piegava di buona voglia a quell'atto di sottomissione affettuosa e di rito; ma non per cattiveria di animo, sebbene per soggezione, come si diceva o per vergogna.
Conclusa questa cerimonia, il padre di famiglia, (spettava a lui il diritto) fettava lu piccilatiedd' e poi si cominciava a lavorare di ganasce.
E quindi vermicelli “a agli' e uogli'”; e poi pesce, pesce e sempre pesce, a zuppa, fritto, arrostito, da annodare la gola; finocchi, cardoni, castagne, marroni, pere, mele, uva, fichi ed ogni sorta di fruita; e poi le fritture di pastelle, zeppole, chiènile, e strufoli con orciuoli colmi di vino generoso e di moscato, perchè di vinello non bisognava neppure parlare nel Natale.
Non si andava a letto o si andava per poco e si restava vicino al focolaio a raccontare novelle, aspettando, dicevano le donne e i fanciulli, che la Madonna venisse ad asciugare a quel fuoco li fasciatori, o pannicelli, del bambino Gesù.
Appena si sentivano i primi tocchi, o squilli di campane, una nuova, onda di allegrezza si spandeva per la città.

La gente si metteva in moto, gruppi di ubriachi, spari di tric-trac, ragazzi con lanterne di carta, contadini con il tizzone acceso, braccialiedd' che andavano, monelli che fuggivano paurosi, fingendo di avere inteso o visto, vero pregiudizio, lu dupeminaro (lupo mannaro), e di qua e di là i preti sagrestani delle tre Chiese, che con torce a vento o fiaccole resinose, andavano in giro per chiamare i preti capitolari o canonici e accompagnarli poi alla propria chiesa per le sacre cerimonie.
Secondo le parrocchie, il popolo andava a S. Gerardo, alla Trinità a S. Michele, a S. Francesco nei tempi più antichi e anche a Santa Maria, chiesa dei Riformati; ma per lo più a questa chiesa vi andavano quelli più desiderosi di novità, giovanotti e figliole che amavano ritrarre impressioni di fantasia e anche divertirsi in birichinate nel buio della notte.
Minestra maritata e strascinari erano i piatti caratteristici del Natale, si diceva maritata perché composta di scarole, verze, finocchi, acci e cardani, facendola cuocere bene nel brodo di gallina e di salami saporitissimi, mischiandovi anche formaggio grattugiato e a pezzettini
Li strascinari” erano pasta casareccia, detti così, perché strisciati a forza di dita sulla “cavaruola” una tavoletta di legno incisa a disegni.
Scolati cotti dal caldaio, si mettevano a strati nel piatto condendoli di formaggio e brodo di cappone così da farne il cibo più squisito delle nostre usanze: sicché ogni strascinari era un boccone prelibato e ne bastavano una trentina a saziare il gusto e l'appetito di una persona.
Nella chiusura dell'anno, la sera, si andava prima ad assistere alla funzione di grazie nella chiesa di S. Francesco e poi si faceva una gustosa cenetta di rito in famiglia.
Il mattino di cap' rann' (capo d'anno) di nuovo auguri a diritta e a manca e per le vie non si sentiva altro che: Buon' cap'rann cumpà, cu tutta la famiglia — cent' di quest' giorn' e turnesi — salut' e pruvirenza — na bella zita ricca — furtuna e fig? masch' — pace e cuntantezza! e simili espressioni semplici, schiette ed affettuose.
A mezzodì s'inaugurava l'anno nuovo anche con un pranzo di eccezionale prelibatezza.
Solo in queste feste e nelle solennità religiose si aveva questo lusso popolare di una cucina casereccia, perché nelle domeniche ordinarie bastava una minestra con bollito, fatto con miscela di salami, cioè di coria, zappil', tustaredda, osso di spadduccia o di prisutt' (cotenna, piede, costola, spalluccia, prosciutto), un pezzo di salsiccia o di pezzente che era fatto con i minuzzoli più scarti del maiale.

Evviva i nostri nonni ! Evviva le feste di Natale!
(Fonte: Raffaello Riviello, Potenza 1893)

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