dio vedico tvashtar - Luigi Albano

LUIGI
LUIGI
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MITOLOGIA VEDICA
IL DIO VEDICO TVASHTAR

Esaminiamo la natura del Dio vedico Tvashtar, incominciamo dall'etimologia della parola.

Tvashtar vale vedicamente il fabbro, il falegname, l'artefice, dalla radice tvaksh, come in sanscrito hanno lo stesso significato le parole takshitar, takshaka, taksha, dalla radice taksh.

Ma il fabbro, il falegname, propriamente, non crea dal nulla; esso forma soltanto, ossia dà una forma, una veste: il senso primitivo della radice tvaksh fu quello di coprire, vestire (come abbiamo presso la radice tvish, la radice vish, cosi è forse lecito presso tvaksh, « coprire, » ricordare tvac', « pelle » e la radice vas, « coprire, vestire; » il passaggio della palatale sibilante in cerebrale innanzi alla t dentale iniziale di suffisso che diviene quindi anch'essa una cerebrale, è ovvio nella fonetica sanscrita).

Tvashtar, prima del fabbro, formatore, dovette essere il copritore, il relatore; ora questa coperta, questo velo, questa veste, questa pelle celeste può essere scura nel cielo tenebroso notturno, luminosa nell'aurora mattutina e vespertina, varia nel cielo nuvoloso. Perciò il sole che si chiude nella notte, il sole avvolto dalle luminose aurore, il sole chiuso nella
nuvola, se non è egli stesso il copritore, il velatore, dà origine ad un suo alter-ego, che piglia nome ed ufficio di Tvashtar o Dio copritore, Dio formatore.

Ma un Dio che abbia il potere di rendersi a suo piacere invisibile, di porsi sotto una cappa od un cappello invisibile, ossia di crear tali forme che lo rendano invisibile, di crearsi qualsiasi forma, di divenir viçvarùpa, ossia onniforme, non può operare che per arte magica; e l'arte magica ch'egli conosce è appunto quella, per cui Tvashtar riesce nell'Olimpo vedico il più operoso degli operai divini.

Nel suo potere magico di creare qualsiasi forma, Tvashtar diviene in cielo l'artefice universale, del male come del bene; egli foggia, per esempio, armi fatate, armi di ferro dalle mille punte, fulmini d'oro ad Indra, ed egli stesso genera il nemico d'Indra, il mostro dalle tre teste, dalle sette corna, onniforme o Viçvarùpa come il padre, cui Indra ucciderà; poich'egli, divenuto fabbro, assunse pure anticipatamente le forme del creatore Brahman (Brahmanaspati si dà pure come creatura di Tvashtar, il quale gli appresta una scure di ferro).

Noi diciamo del diavolo ch'esso non è poi tanto brutto quanto lo fanno. Nelle novelline popolari troviamo ora il buon mago, ora il diavolo benefico che ce lo provano. Ma il solo mito può dichiararci il senso di questa eresia. Per un ortodosso il diavolo non può essere altrimenti che brutto. Ma, quando ci possiamo persuadere che il diavolo mitico non è altro, insomma, se non il Dio, ossia il luminoso nascosto, non ci meraviglieremo di trovare presso il mostro, che conosce tutto il male, il sapiente che possiede tutte le malizie, e che può quindi fare il bene non meno che il male.

Voi avrete inteso sicuramente raccontare qualche storiella popolare intorno al fanciullo creduto scimunito che va all'inferno, apprende dal diavolo ogni segreto, e torna alla casa paterna ricco e sapiente. Non vi rechi meraviglia l'intendere che gli Inni vedici ci offrono già i germi di questa storiella.

Tvashtar, il fabbro per eccellenza, dalle buone opere (svapas, sukr'it), dalle ottime mani, il creatore, che può creare, a suo piacere, forme d'uomini, di donne, d'animali, ed ogni magia, che conosce tutte le vie segrete, il sapientissimo, è pure il ricchissimo, invocato perciò dal devoto per esserne arricchito.

La ricchezza e la sapienza sono pure il dono dell'ellenico Plutone e del diavolo della tradizione popolare cristiana. Ma il diavolo non è solo. Tvashtar ha in sua compagnia ora gli Angirasas, specie di messaggieri, di angeli, ora le donne; ed anche qui dovette accadere un equivoco del linguaggio, per la confusione della radice g'nà, «conoscere», con la radice g'an, «generare».

Delle donne si dice che ne sanno un punto più del diavolo: quando l'eroe mitico è tradito, a tradirlo interviene sempre una donna; quando è tradito il mostro, è la sua sposa o figlia innamorata del giovine eroe mitico che salva l'eroe minacciato di morte; la sorella del mostro Hidimba, nel Mahàbhàrata, per amore dei giovani Panduidi, è cagione della morte del proprio fratello; nel Ràmàyana, se Ràma consentisse ad amare la sorella di Ràvana, Ràvana sarebbe perduto, senza che fosse necessaria la guerra micidiale che lo sposo di Sita imprende contro il re di Lanka.

Le gnàs o donne sono quelle, con le quali, secondo gli Inni vedici, Tvashtar (una forma iniziale di diavolo vedico) esercita specialmente il proprio potere; perciò un devoto, nell'inno 35° del VII libro del Rigveda, lo invoca propizio insieme con le donne.

Ma il diavolo non solo ha con sè buona compagnia, ma piglia pure allievi per istruirli; e, per lo più, avviene che l'alunno venga a superare il maestro, che il diavolo nuovo vinca l'antico, il che torna quanto a dire che il Dio vinca il Demonio, dopo essere stato nella casa del demonio; ossia lo stesso essere mitico entrando nella tenebra si duplica e moltiplica pel duplicarsi e moltiplicarsi di un'espressione mitica o più tosto per l'incontrarsi di una serie duplice di espressioni mitiche.

Si disse probabilmente da prima: Il sole è entrato nella tenebra; il vecchio sole è entrato nella tenebra; il sole imbecillito, il sole impoverito, ossia il povero imbecille è entrato nel regno tenebroso; ossia il povero inesperto, lo sciocco, o il finto sciocco, è andato all'inferno.

E si disse ancora: Il luminoso, aureo, ricco sole fu coperto dalla tenebra; la tenebra copre, nasconde i tesori luminosi; ossia la ricchezza, la luce sono nascoste dal demonio della tenebra.

Ed infine si conchiuse: Il povero imbecille entrato nel regno della tenebra trovò il signore del regno tenebroso o infernale, e gli sottrasse la scienza, ossia la luce, la ricchezza, i tesori, ossia l'aurora, l'aureo sole. In altre parole, il sole mattutino vien fuori luminoso, ossia sapiente, aureo, ossia ricco dalla tenebra infernale.

La casa del diavolo nel mito incomincia nel cielo vespertino (o nell'autunno) e finisce attraverso la notte scura (o l'inverno), nel cielo mattutino (o nella primavera), il luogo in cui accadono le nozze dei due giovani sposi (il nuovo sole e l'aurora o la primavera) insieme col bruciamento della vecchia strega (la notte, la stagione invernale che avea incominciato le sue malie nel cielo vespertino ed autunnale, cercando di precipitare nel pozzo la bella fanciulla, e di perdere l'eroe solare).

La casa del diavolo si riproduce poi ancora per fenomeni fisici conformi nel cielo nuvoloso, lampeggiante, tonante, fulminante. Il vecchio sole, che si chiude nell'aurora vespertina (o nell'autunno) e poi si nasconde nella notte (o nella stagione invernale), nella selva notturna, nella caverna notturna, appare un mago, un demonio.

Ma poichè al vecchio sole della sera (o dell'autunno) succede il giovine sole del mattino (o della primavera), questo appare ora suo allievo, ora suo figlio adottivo, ora suo genero, come Vivasvant, che sposa Saranyù figlia di Tvashtar (abbiamo pur già detto che, invece di Vivasvant, appare talora come sposo di Saranyù il Dio Vàyu, il vento erotico che diviene quindi eroico, la brezza crepuscolare, lo zefiro primaverile che si trasforma nelle imprese mitiche in un vento gagliardo, che porta le montagne celesti, ossia le nuvole, come Hanumant, il figlio del Vento, trasporta nell'aria intiere montagne per fabbricare un ponte sul mare).

Noi conosciamo, nella leggenda cristiana, il fanciullo Gesù, figlio adottivo del falegname, che nel tempo in cui sta nascosto, in cui impara l'arte del falegname ed altre cose mirabili, acquista, in breve, tanta sapienza che il buon falegname Giuseppe ne rimane confuso. La quaresima che precede la primavera è simbolo terreno della stagione tenebrosa annua o notturna. Paragonata la stagione invernale (e la notte) ad una selva notturna, il taglialegna, il falegname diviene l'abitatore naturale di quella selva; il vecchio sole nascosto nella selva notturna e invernale (e poi anche nella nuvola tenebrosa) è il falegname celeste.

Ma, perchè da esso vien fuori il nuovo sole, questo si suppone figlio adottivo del falegname. Cosi dalla quaresima risorge il nuovo sole primaverile. Il punto medio della notte, il punto medio della stagione tenebrosa, della selva, del bosco mitico, dev'essere il tempo trionfale del falegname, ossia del taglialegna nella selva oscura; cosi si festeggia ancora dai Cristiani la mezza quaresima, col simbolo di una sega, la sega di San Giuseppe,  il cui giorno cade per lo più verso la metà di quaresima, e che ha ufficio di dividere, di segare la quaresima per metà.

La vecchia pignatta, che in Francia e in Piemonte e in Toscana (ove la chiamano pentolaccia) si rompe a mezza quaresima, è pure simholo della brutta vecchia, della brutta stagione che se ne va.

Così ancora suolsi dai fanciulli piemontesi, invece di una sega, figurar talora una testa di diavolo, il Dio del tempo tenebroso, e gettarla sopra le spalle dell'improvvido compagno, con le parole: L'asino è carico e nessuno lo sa. Quest'asino carico non è altro che l'asino di San Giuseppe, il quale salva dall'ira del perverso Erode il Dio neonato Gesù
nell'Aigyptos, la regione nera, la regione scura, come dice l'etimologia della parola, ove, nella tradizione dorica, la rapita sposa di Menelao, Elena, si nasconde. (È mirabile la somiglianza in questo punto della leggenda dell'antico Giuseppe perseguitato che sta nascosto in Egitto, con quella di Giuseppe e Gesù fuggitivo in Egitto; il viaggio di San Giuseppe, nella tradizione cristiana è preceduto da sogni come l'andata in Egitto di Giuseppe l'antico; l'antico Giuseppe rivela la sua sapienza in Egitto, cioè nel paese scuro, cosi il figlio trafugato di Giuseppe nel tempo in cui sta nascosto, s'istruisce.)

Nel tempo in cui Gesù sta nascosto, acquista la massima sua sapienza; uscendo dal suo nascondiglio, esso appare invece luminoso ed illuminante. Questo stesso carattere ha l'eroe mitico.

Nel tempo, in cui i cinque fratelli Panduidi, presso il Mahàbhàrata, fuggiti nelle selve stanno nascosti per sfuggire alle persecuzioni del perverso Duryodhana, ciascuno di essi apprende ed esercita un'arte speciale, e vi riesce insuperabile. La leggenda vedica dei R'ìbhavas, artisti ospitati nella stagione scura, ci rappresenta lo stesso mito.

Tvashtar è ora fabbro falegname, ora fabbro ferraio. Ma abbiamo veduto ch'esso non ha solo il potere di fabbricare cose, ma altresì forme animate, animali e uomini.

Un inno del Yag'urveda bianco (XXIX, 9) ci fa sapere che il rapido cavallo (àçur açvah) nacque da Tvashtar; un inno del Rigveda (X, 184) ci dice che Vishnu prepara la yoni (vulva) e Tvashtar foggia in essa le forme; un inno dell''Atharvaveda (IX, I) celebra Tvashtar come generatore delle forme degli animali; e non solo Tvashtar crea le forme, ma le crea con qualità perfette, ond'egli è pure celebrato nel Yag'urveda e nell'Atharvaveda per aver posta l'agilità ne' piedi del cavallo celeste.

E non solo crea esso stesso delle forme, ma aiuta altri a crearne; dall'Atharvaveda s'apprende come la Dea Aditi, quando ebbe desiderio d'ottener figli, portò, come amuleto, un certo braccialetto (parihastam, certo il disco lunare, o il disco solare, essendo la luna come il sole celebrati quali generatori per eccellenza); Tvashtar, volendo aiutare una donna a partorire un figlio, le legò al braccio quello stesso braccialetto che Aditi genitrice celeste avea portato. Quando Tvashtar comunica, nel cielo, l'arte sua ai Ribhavas, questi suoi discepoli diventano, alla loro volta, immortali, ossia Dei.

E della natura celeste dei R'ibhavas non si può avere alcun dubbio, quando intendiamo ch'essi, colla loro industria operaia, hanno fabbricato il carro bene rotante ed i cavalli d'Indra, e ch' essi hanno dato la giovinezza ai padri loro.

Il vecchio sole della sera e dell'autunno si ringiovanisce al mattino ed alla primavera. Questa nozione mitica si spiegò cosi: Il vecchio sole è ringiovanito dal giovine sole; ossia il giovine sole restituisce la gioventù al vecchio sole che lo generò, al vecchio suo padre od al vecchio sole che lo ammaestrò, al suo vecchio maestro.

L'uno identico, considerato nei suoi due aspetti divenne due, dei quali il primo è ora il padre, ora il suocero, ora il padrone, ora il maestro; il secondo è ora il figlio, ora il genero, ora il servitore, ora il discepolo.

Abbiamo già toccato del Dio Indra, il quale dona la bellezza alla pia fanciulla che gli ha recato a bere l'ambrosia, e che era divenuta brutta all'accostarsi della notte; in grazia di quell'ambrosia, la pelle ispida, scura della fanciulla Apalà, diviene luminosa del color del sole. Così come Tvashtar ha il potere di coprire con una pelle (tvac), i R'ibhavas, discepoli di Tvashtar, fanno luminosa la pelle ai padri loro, ossia restituiscono ad essi la perduta gioventù.

E poichè trovasi pure identificato Tvashtar con Savitar che è il sole, bisogna dire che il ringiovanito dai R'ibhavas è lo stesso loro maestro Tvashtar, ossia il vecchio sole, il Titone antico, che morrebbe nella notte e nell'inverno, se non venisse ringiovanito, risuscitato più luminoso al mattino ed in primavera. Così pure, lo ripetiamo, poterono confondersi nella leggenda cristiana il biblico Giuseppe, il sognatore, fanciullo perseguitato, che in Egitto, ossia nel paese scuro, acquista la ricchezza, la potenza, la ricchezza, col vecchio Giuseppe, sognatore anch'esso, che, per aver visto un sogno, trafuga il fanciullo perseguitato in Egitto.

Il vecchio sole che si nasconde nella tenebra notturna od invernale, prepara la via del giovine Dio solare, mattutino e primaverile. Nel Rigveda (X, 70) Tvashtar è celebrato come il previdente che prepara le vie degli Dei, sotto questo aspetto Tvashtar ha natura benigna; così pure nella sua qualità di foggiatore d'armi fatate pel Dio Indra, e di istitutore degli artisti divini, i R'ibhavas.

Ma, poichè Tvashtar esiste solamente in quanto il sole sta coperto, quando il sole si scopre, quando il sole emerge dalla tenebra e dalla nuvola, quando Indra col fulmine squarcia la tenebra, l'opera di Tvashtar si distrugge, e Tvashtar piglia perciò in odio quello stesso Dio ch'egli ha armato per le battaglie, quello stesso artista ch'egli nella tenebra ha fatto luminoso, ossia ammaestrato, quello stesso sole fanciullo ch'esso protesse ed allevò, e che diviene, appena fatto potente, nemico di Tvashtar, mercè il quale si salvò, raggiunse la bellezza, la sapienza, la ricchezza, la potenza.

Nelle novelline popolari l'eroe fanciullo, che fu in casa del diavolo per imparare la scienza, si serve di questa scienza medesima per ingannare, tradire il diavolo, rubargli la figlia, portargli via il tesoro, fuggire da esso; il diavolo o mago lo insegue rapidissimo, ma il fanciullo, che gli ha menato via il cavallo, ossia il rapido, ossia che vien fuori egli stesso in forma di rapido corridore, corre più veloce, e, per qualche malizia, si trasforma in modo che o sfugge alle persecuzioni del diavolo, o assume tale carattere, che in quel carattere si trova superiore al diavolo o stregone, e lo uccide. Evidentemente non è il senso morale quello che predomina in tali novelline; poichè, per quanto sembri bello ogni dispetto fatto al diavolo, l'ingratitudine è cosa assai più mostruosa che il diavolo non sia.

Ma noi non ci dobbiamo occupar qui della morale dei miti, sì bene soltanto della loro realtà fisica, per la quale dai mostri fisici emergono mostri morali. Figurata la notte o la stagione invernale, come un mostro deforme, proteiforme, onniforme, come un drago che butta fiamme ora dalla testa, ora dalla coda (le due estremità del cielo infiammate nella sera e nel mattino, nell' autunno e nella primavera), immaginatosi che quel drago mostruoso inghiotte ed attira nella sua spelonca per divorarlo l'eroe solare, nel veder riuscire, risalire vittorioso quest'ultimo al mattino o alla primavera, dalla parte opposta del cielo, dalla quale s'era visto tramontare nell'autunno e nella sera, s'immaginò che, ospitato nel seno della notte il sole vecchio, il sole rimbambito, il sole ritornato bambino (di sapientissimo ch'era), nell'ospitalità notturna s'ammaestri, s'erudisca a spese di quel mostro medesimo che lo trattiene presso di sè, per avere un servitore intelligente di più, o col proposito di perderlo alla prima occasione.

Il mago, il diavolo, s'accorge in breve che il discepolo ha tanta malizia che sta per divenirgli superiore; nella seconda parte della notte e della stagione tenebrosa dell'anno il sole s'avvia verso il suo nuovo trionfo celeste. Allora come nella prima metà della notte e della stagione fredda, tenebrosa, il diavolo, sentendosi superiore, non nascondeva i segreti dell'arte sua all'ospite; nella seconda invece s'insospettisce, incominciandosi ad accorgere che l'eroe ospitato sta per pigliargli il disopra: da quel punto, nell'animo del mostro sorge l'invidia e il disegno di perdere il suo giovine e potente rivale: ma oramai questo, a misura che s'avanza, cresce in potenza, come invece il diavolo, a misura che lo insegue, sente venir meno le proprie forze; perciò il fine della notte, il fine della stagione invernale, il fine della tempesta, annunzia la morte del vecchio Toashtar, ossia dell'opera propria, chiamata com'esso Viçvarùpa, onniforme, (o Tvashtar), o con altro nome, perfetto equivalente ideologico, Vr'itra (il copritore), che appare negli Inni vedici come il figlio di Tvashtar.

E' un punto appena quello che divide il Dio Tvashtar dal Dio pluvio e tonante Indra e dal suo nemico. Quando gli Inni vedici ci dicono che Tvashtar il copritore e il foggiatore di forme prepara le armi ad Indra Dio pluvio e tonante, ciò val quanto dire che, senza il copritore, ossia senza cielo copritore, non vi sarebbe il Dio fulminante e tonante, ossia che Indra trova i suoi fulmini nel cielo coperto, che i fulmini si trovano nel cielo coperto e non fuori di esso.

Tvashtar copre il cielo; il Dio fulminante e tonante trova le proprie armi in quel cielo coperto; e se ne serve per distruggere Vr'itra il mostro copritore, ossia quel cielo stesso nuvoloso, senza il quale Indra non potrebbe essere un eroe, anzi l'eroe più meraviglioso dell'Olimpo.

Tvashtar ama la propria forma tenebrosa, e desidera conservarla; Indra, sebbene sia nato in essa, sebbene senza di essa la sua potenza si distrugga, ama distruggerla, per far del bene, liberando le acque, le vacche, le donne che Tvashtar, ossia il suo equivalente Vr'itra, tiene prigioniere, per liberare l'eroe o l'eroina solare che sta chiusa nella nuvola, per ritornare quindi egli stesso a splendere come cielo luminoso, come sommo signore del cielo.

Gli inni e le leggende del periodo vedico ci presentano però già Indra e Tvashtar come nemici. Di questa inimicizia essi ci recano come principal ragione la seguente: Indra bevette l'ambrosia nella casa di Tvashtar (così il creduto sciocco delle novelline popolari , non veduto dal padre e dalla madre, discende nella cantina per berne il vino, e fa scorrere invece il vino per tutta la cantina, onde, tornando la madre a casa, si sdegna) nelle coppe di Tvasthar, uccidendo il figlio di Tvashtar, ossia Vr'itra Viçvarùpa.

L'oceano celeste si riasciuga, ora perchè Indra ne beve le acque ambrosiache, ora perchè, fulminando, le fa scorrere, e vuota cosi il barile celeste che conteneva il soma. Il çatapatha brahmana, interpretando la contesa fra Indra e Tvashtar per il soma, ci racconta la seguente storiella: «Tvashtar aveva un figlio dalle tre teste, dalle tre bocche e dai
sei occhi, chiamato perciò Viçvarùpa. Una delle sue bocche beveva l'ambrosia (soma), un'altra beveva vino (o bevanda spiritosa, surd), un'altra era per le rimanenti cose da mangiare e da bere. Indra odiava quel Viçvarùpa, e gli tagliò le tre teste: da una bocca uscì l'uccello francolino, ch'è di color bruno come il re Soma; dall'altra uscì uno sparviere, e però quest'uccello grida con la voce rauca, con cui parla un briaco che ha bevuto liquori inebbrianti; dalla terza bocca uscì una pernice, dai colori screziati, poichè sembra che nelle sue ali siano gocciate stille di burro liquefatto e di miele; da tal bocca Viçvarùpa riceveva ogni maniera di cibi. Tvashtar s'accese d'ira, e dicendo: M'uccise il figlio, egli offerse ambrosia agli Dei, Indra eccettuato. Indra pensò: Mi allontanano dall'ambrosia; e, come un forte adopra verso un debole, anche non invitato, si cibò del soma purificato che era nel vaso. Ma questo gli fece danno: esso gli usci tutto dalla bocca, e dalle altre parti vane del corpo. E Tvashtar sali in collera, dicendo: Chi, non invitato, si cibò del mio soma? egli stesso interruppe il proprio sacrificio; e quel resto di soma, ch'era rimasto nel vaso, adoperò (per accompagnare con un sacro rito l'imprecazione), dicendo: Cresci Indra-nemico (lndraçatruh), cosi disse. E poichè disse Indra-nemico cresci, perciò Indra lo uccise; ma se invece egli gli avesse detto: D'Indra nemico (Indrasya satruh), cresci, egli avrebbe potuto uccidere Indra.»

Questa leggenda è ancora di formazione vedica, e, sebbene relativamente moderna, serve pure ad indicarci la forza che s'attribuiva nell'età vedica alle imprecazioni, per cui anche un semplice lapsus linguae dell'imprecatore poteva rivolgere sopra di sè gli effetti di quell'imprecazione ch'egli scagliava sopra il suo nemico.

In questo Tvashtar imprecatore noi abbiamo poi una specie di Dio Brahman, il quale combinerebbe col nome di Brahmanaspati o signor della preghiera, dato pure in alcuni Inni vedici al figlio di Tvashtar.

E, poichè ben presto l'uccidere un Bràhmano divenne il massimo delitto sociale indiano, Indra uccisore di un Bràhmano nel cielo cadde in disgrazia, divenne odioso alla casta bràhmanica, che gli sostituì invece Brahman nel principato dell'Olimpo, mentre Indra rimase solo più il Dio della casta guerriera, la quale nel fine del periodo vedico e nelle leggende bràhmaniche troviamo spesso in fiero contrasto con la casta de' Brahmani.

Uno dei nomi vedici di Indra come uccisore del mostro, del tricipite Viçvarùpa, è Trita Aptya, il quale conoscendo le armi paterne combatte, taglia le tre teste delle sette corna del figlio di Tvashtar, libera le vacche.

La parola Trita vale propriamente terzo; suoi fratelli sono Ekata che val primo, e Dvita che val secondo.

Come, nelle novelline popolari, il terzo fratello è sempre il più valoroso, cosi la grande impresa mitica celeste è compiuta, ha Indra come Trita, ossia come terzo (ho già riscontrato, nella mia Mitologia zoologica, la leggenda indiana di Trita chiuso nel pozzo dai suoi due fratelli Ekata e Dvita, con le novelline numerose, ove il giovine fratello che ha compiuto un atto eroico, discendendo nel pozzo, ov'è il drago, viene chiuso nel pozzo dai fratelli invidiosi) Trita troviamo identificato ora con Indra, ora con Marut, Vàta, Vàyu ; così nel Mahàbhàrata, Arg'una figlio d'Indra e Bhima figlio del Vento fanno prodezze insieme.

Bhima precipitato, per insidia, nel regno dei serpenti, vi beve l'acqua della forza, come il vedico Trita è calato nel pozzo, come Indra trova nel pozzo il soma, ossia la bevanda ambrosiaca, dalla quale egli trae la sua forza; in una leggenda del Mahàbhdrata si narra che Trita nel pozzo appresta il soma.

Il sole che si tuffa nella nuvola e nella notte tenebrosa, nell'acquosa stagione invernale, retta specialmente dalla luna (Soma), come il giorno e l'estate dal sole, vi acquista la sua forza, e ne vien fuori. Indra pluvio e tonante primaverile, Indra pluvio e tonante estivo, e Trita che piglia forza nelle acque, che sconfigge il mostro trattenitore delle acque, che uccide il figlio di Tvashtar, hanno natura comune.

Ma in quali relazioni di parentela stanno Trita ed Indra con Tvashtar? Tvashtar identificandosi con Prag'àpati con Dhàtar, con Savitar, con Pùshan, appare un Dio creatore.

Dicemmo già ch'esso diede vigore ad Indra. Trita si dà nella leggenda bràhmanica come figlio di Prag'àpati. Ma Prag'àpati, o signor delle creature, è un termine troppo generico, ed ogni creatura si può considerare come opera di Prag'àpati. Tvashtar riproduce, invece, particolarmente il carattere del vecchio padre, del vecchio suocero, che accoglie, per volere del fato, inconsciamente, incautamente quello che lo dovrà perdere.

Indra e Trita devono tutto il secreto dell'arte loro a Tvashtar, ma di esso si valgono appunto per distruggerlo. Indra e Trita sono in alcun modo figli adottivi, figli inconsapevoli del padre Tvashtar inconsciente che prepara il suo danno senza saperlo. Egli ha un proprio figlio simile a sè, Triçiras, ed una figlia Saranyù; sposa la figlia a Vàyu, e secondo una nozione più frequente a Vivasvant. Ma Vàyu s'identifica con Trita, e Trita con Indra. Perciò Trita od Indra ci dovrebbe apparire al pari di Vàyu come genero di Tvashtar, accolto da lui come figlio, ospitato, nutrito, ammaestrato nell'arte sua, fortificato a tutto suo detrimento.

La leggenda cristiana ha fatto di Giuseppe il legnaiuolo lo sposo impotente della Vergine, che lo Spirito Santo viene a fecondare; la leggenda vedica ci dà il vecchio legnaiuolo Tvashtar, il quale sposa la vergine sua figlia Saranyù ora a Vàyu, il sacro vento, ora a Vivasvant, uno de' nomi del giovine sole.

La leggenda del Mahàbhàrata ci offre il sole che visita in segreto nella casa paterna di lei la vergine Kunti, si unisce con essa, le dà un figlio, ma l'assicura che rimarrà, dopo il parto, sempre pura; lo zefiro ed il sole s'uniscono ogni giorno con l'aurora mattutina, e questa riappare ogni giorno vergine, o sempre giovane, come dice l'inno vedico, quantunque antica. L'aurora, quantunque antica, è sempre capace d'essere fecondata; quindi se, nella Bibbia, la vecchia Sara, al passare degli angeli, si feconda, se la madre di Sansone, dopo l'annunzio di un angelo, quantunque creduta sterile, si feconda dell'eroe, la cui forza è nella chioma; noi abbiamo sempre lo stesso fenomeno dell'aurora o della primavera, che, quantunque antica, quando zefiro spira, quando il nuovo sole si mostra, ci appare giovine, pura, e si rifeconda.

Interpretati con i fenomeni naturali, i miti pèrdono il loro carattere mostruoso. Così ancora, quando il Mahàbhàrata ci racconta che Pàndu, il pallido, è impotente a generar figli nel seno della sua sposa Kunti, la quale, consenziente lo sposo, riceve la visita degli Dei Yama, Vàyu ed Indra che vengono a fecondarla; noi abbiamo ancora un mito che ci rappresenta il fecondarsi dell'aurora e della primavera, a cui non bastando Pàndu, il pallido, l'imbelle sole invernale, perchè divenga viva ne' figli e nelle opere, s'inviano il sole luminoso o sapiente Yama, il vento vigoroso Vàyu, il tonante, fulminante, pluvio ed agile Indra primaverile a fecondarla.

Ma, per tornare agli Inni vedici, non è dubbio che abbiamo in essi un divino falegname Tvashtar che sposa la propria figlia a Vàyu o Vivasvant, dei quali Indra e Trita appaiono equivalenti.

Indra e Trita si mostrano quindi nemici di Tvashtar, ma prima essi furono beneficati da esso, avendo essi da Tvashtar appreso l'arte, per cui riescono invincibili. Indra o Trita è l'artista che supera il suo maestro. E' come Indra s'identifica con Trita, così tre si rappresentano i R'ibhavas od artefici celesti, discepoli di Tvashtar; Indra è il R'ibhu per eccellenza; perciò i R'ibhavas appaiono per lo più congiunti con Indra; ed è il terzo R'ibhu quello che fa il gran miracolo, il miracolo più bello, pel quale Tvashtar stesso ne piglia invidia.

Essi aveano già fabbricato con l'arte loro appresa da Tvashtar dei carri, col loro attacco, cioè vacche e cavalli, e altre cose mirabili; essi aveano pure la virtù di ringiovanire i loro genitori (Sudhanvan è il nome vedico dato al padre dei R'ibhavas); ma tutto ciò all'ingenuità del poeta vedico pareva ancora poco: esso riserbava invece tutta la sua meraviglia per i R'ibhavas, i quali da una sola coppa sacrificale ne aveano, abilissimi prestidigiatori, formate quattro, è questo portento lo compie il più giovine dei tre fratelli.

Tvashtar, il loro maestro, in alcuni inni, appare soddisfatto di quella meraviglia d'arte; in altri, invece, lo vediamo vergognoso. Egli avea fatto quella coppa che i R'ibhavas aveano moltiplicata per quattro; vedendo alterata l'opera sua, e certamente migliorata, egli va a nascondersi confuso tra le sue donne, ove si sdegna e si prepara ad uccidere i suoi rivali.

Tvashtar disse così: Uccidiamo quelli, i quali hanno profanata la coppa, nella quale gli Dei venivano a bere. Poichè tra quei profanatori si trovava il Dio Indra in persona, il cui potere è appunto quello di estendere il cielo celeste, si comprende come sia avvenuto l'espandimento della coppa di Tvashtar, e come (una specie di Secchia rapita celeste), dopo quell'espandimento dell'opera di Tvashtar, Indra ed i R'ibhavas si separino da esso, e la guerra s'accenda nel cielo per cagione della coppa, in cui si beve, come poco innanzi abbiamo veduto Tvashtar guastarsi con Indra per cagione della bevanda divina, che egli era venuto a bere, per propria forza, senza essere stato invitato dal guardiano del soma alla libazione.....segue...

(fonte: Ricerca/studio del Prof. A. De Gubernatis, presso l'Istituto degli Studi Superiori di Firenze, anno 1874)

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