Il Comunismo spiegato al Popolo - Luigi Albano

LUIGI
LUIGI
Vai ai contenuti
IL COMUNISMO SPIAGATO AL POPOLO
CAPITOLO I

Cos'è il Comunismo?
Se vi domando cosa vuol dire comunismo, voi mi rispondete tutti che comunismo vuol dire: prendere ai ricchi le loro ricchezze per spartirle egualmente fra tutti, onde godersela poi tutti in santa pace senza far niente, mangiando, bevendo e divertendosi.
Il comunismo del popolo è dunque in conclusione, la voglia di godere senza faticare: la cosa è così naturale!
Ognuno cerca naturalmente la propria felicità e la felicità consiste nel godere; ma il lavoro è una fatica, la fatica una pena, cosa dunque di più naturale di desiderare di godere senza faticare?
La cosa a dir vero non sarebbe punto morale perché Dio ci ha comandato di viver quaggiù col sudore della nostra fronte, e questo è un precetto dal quale nessuno può dispensarsi; ma oltre che immorale la cosa è poi anche impossibile.
Il lavoro non è soltanto un dovere, ma una necessità; e se non si lavora, in pochi giorni si muore tutti di fame.
Mettiamo pur tutto in comune, mangiamo, beviamo e tripudiamo, ma il tripudio sarà brevissimo e luttuoso il suo fine.
In pochi in pochissimi giorni avremo mangiato tutto il grano che c'è ne granai, avremo bevuto tutto il vino che c'è nelle cantine, e allora cosa mangeremo e cosa berremo? Forse l'oro e l'argento? Ma l'oro e l'argento non son mangiabili né bevibili.
Compreremo forse con essi del grano e del vino dagli altri popoli? Ma se gli altri popoli avranno fatto come noi, non avranno più niente neppur per loro; e ad ogni modo cosa mangeremo quando avremo speso anche l'argento e l'oro?
Ci toccherà allora, come vi dissi, morir di fame.
Questo è quello che nascerebbe se si tralasciasse di lavorare, perché, e bisogna metterselo bene in testa, la ricchezza del mondo non consiste già tanto nei prodotti accumulati dei campi e dell'industria (prodotti che si consumerebbero in pochi giorni) quanto e principalmente nella potenza di crearne sempre di nuovi.
La ricchezza del mondo non consiste cioè tanto nella quantità esistente di grano, di vino, di lino, di canape, ecc. ecc., quanto e principalmente, nelle forze che Dio mise a nostra disposizione per produrre sempre dell'altro grano, dell'altro vino, del l'altro lino e dell'altra canape, per supplire a quello che si consuma ogni giorno ed ogni ora.
Ma queste forze preziosissime non si possono far valere se non col lavoro.
Così per esempio la terra ha la virtù di produrre il grano l'uva ed il lino con cui ci facciamo il pane, il vino e la tela, ossia quanto ci occorre per mangiare, per bere e per vestirci.
Così per esempio l'acqua corrente ed il vapore (ossia il fumo, che si solleva dall'acqua bollente) han la virtù di far muovere certe macchine che filano e che tessono il lino, la canape ed il cotone che ricaviamo dalla terra, e li convertono nella tela con cui ci facciamo i vestiti.
Ma perché la terra produca il grano, l'uva ed il lino, bisogna dissodarla, seminarla e coltivarla, bisogna lavorarla insomma, giacché la terra non ci dà quei prodotti spontaneamente; e perché continui a darceli sempre, bisogna continuar sempre a lavorarla, giacché se tralasciamo di lavorarla, essa si copre subito d'erbacce e di spine, e torna in un momento alla primitiva sterilità.
Il lavoro è dunque necessario, tanto per fare che la terra produca, quanto per fare che continui a produrre quello che ci è necessario.
E così per far lavorare le macchine bisogna metterle in moto, e quando hanno incominciato a muoversi, bisogna continuare a farle andare, ed anche quando vanno, bisogna sempre dirigerle, sorvegliarle e accomodarle quando si guastano; e prima ancora di tutto questo bisogna crearle, bisogna far le macchine stesse colle nostre braccia, col nostro lavoro, giacché le macchine non nascono mica dalla terra come i funghi.
Dunque il lavoro ed un continuo lavoro è necessario anche per far lavorare le macchine, anzi le macchine stesse non son figlie che del nostro lavoro...continua...

La presente riedizione è stata elaborata e digitalizzata sulla base dell'edizione dell'opera del 1851 pubblicata in Venezia dalla Tipografia GASPARI, opera custodita presso la  HARVARD COLLEGE LIBRARY.
Si sconosce il nome dell'autore.


© Luigi Albano
© Luigi Albano 2017
Torna ai contenuti