la giustizia a Roma
Pubblicato in curiosità · Domenica 17 Mag 2020
Fra tutte le città del mondo civile,
credo che Roma sia sempre stata quella ove governo e governanti professarono il
minor rispetto per la vita degli altri anche in tempi non molto precedenti al
nostro.
Basta a persuadere di ciò la fredda
indifferenza con la quale i menanti, non esclusi quelli avversi al Governo ed
ai baroni romani, raccontano nei loro Avvisi con scrupolosa frequenza gli
omicidii ed i supplizi.
La compassione non si sentiva; non
era del luogo né del tempo.
L'abitudine aveva generato l'indifferenza.
Svariatissimi non pertanto i modi di supplizio, ma più antico di tutti la
decapitazione, prima a mano, poi con una macchina, che, se non era a vapore
come quella del Giusti, di non molto si discostava dalla così detta
ghigliottina che la Rivoluzione francese adotto per suo uso e consumo.
Nel medio evo campo di giustizia era
sempre la Rupe Tarpea. Presso un leone di basalto i delinquenti udivano la
lettura della sentenza che li condannava, e quanto ai malfattori di bassa
condizione solevasi porli a cavalcione di quel leone con una mitra in testa e
con la faccia impiastricciata di miele.
Non si dice quale fosse il modo
dello spaccio finale, ma è lecito credere la decapitazione per i condannati,
colpevoli o no, di condizione non plebea.
Si trova infatti fino dal 1354 un
esempio illustre. Nel dì 29 agosto di quell'anno, fra' Monreale veniva
decapitato sulla piattaforma del Campidoglio nel luogo ove oggi è la statua di
Marco Aurelio, ma la decapitazione eseguivasi con lo spadone del carnefice al
quale ii chirurgo del gran venturiero indicò la giuntura dove doveva colpire.
La testa che fra’ Monreale, lieto di
morire a quel modo poichè si aspettava di peggio, aveva adagiata sul ceppo con
la miglior grazia possibile, sbalzò al primo colpo; fortuna che non toccava a
tutti.
Nel 1488 venne designato per luogo
di giustizia un recinto davanti al Ponte di S. Angelo, nelle cui adiacenze era
il vicolo denominato del Boja. Anche Campo di Fiore serviva all'oggetto in casi
straordinari, specie di supplizi preceduti da gogna, onde prendeva nome, in
prossimità della piazza, la via della Berlina oggi trasformata in via del
Paradiso.
Ma tutti i luoghi erano buoni per
ammazzare gente con legalità. Nel 27 maggio 1500, in pieno Anno Santo, i
pellegrinanti a S. Pietro ebbero la dolce sorpresa di passare il Ponte fra due
file d’impiccati; erano diciotto, nove per parte.
Brillavano, fra costoro, un medico
dello Spedale di S. Giovanni che soleva di gran mattina andare armato di
balestra a caccia di romei, ammazzandone e derubandone quanti più poteva, ed un
confessore dello Spedale stesso che indicava al medico i pellegrini infermi
provvisti di danaro onde gli spacciasse col veleno per poi spartirsene fra loro
il gruzzolo.
Gli altri sedici erano volgari
assassini di strada e vanno compianti per la mala compagnia che ebbero nelli
ultimi momenti di vita.
Il supplizio della forca già in uso
da molto tempo non si applicavasi, neppure nel Cinquecento, ai condannati di
casta privilegiata, quali erano gli ecclesiastici ed i nobili.
L'eguaglianza davanti alla pena, se
non alla legge, venne in Roma soltanto dopo la rivoluzione. Di casta
privilegiata non si consideravano, tranne fossero nobili di nascita, i poveri
menanti o fogliettanti condannati a morte in Roma, che vanno registrati nel
lungo martirologio della libertà di pensare e di scrivere.
Un altro supplizio in uso pei
delitti di eresia, di sortilegio, e congeneri, che non dava una morte più o
meno immediata, ma a poco a poco, a centellini.
Racconta Giovanni Rucellai nel suo
Zibaldone quaresimale, di aver veduto nell'Anno Santo 1450 due donne murate in
due pilastri della Chiesa di S. Pietro, solo con una buca dove si porge loro il
mangiare. Ignoro se le due donne del 1450 fossero murate per condanna di
giudice o per penitenza spontanea, ma è un fatto notorio che la Santa romana
Inquisizione adottò nel suo Codice penale la muratura a vita.
Nel processo
celebre che portò al patibolo il Carnesecchi (1567) furono
condannati ad esser murati in vita Girolamo Guastavillani gentiluomo, Filippo
Capiduro dottore in legge, Ottaviano Fioravanti mercante bolognese e Girolamo
dal Pozzo di Faenza, quest'ultimo per essere inutile alla galera.
Ed un secolo
dopo, l'uso di questa pena durava ancora, difatti fra le donne ree del sordo
macello di mariti mediante l'acqua tofana (1659) molte furono
murate nelle carceri dell'Inquisizione, secondo riferisce Giacinto Gigli.
Sarebbe qui fuori di luogo qualsiasi
cenno circa le giustizie non capitali che si eseguivano per la città quasi a
pubblico divertimento, come la corda, il cavalletto, la frustatura delle
meretrici, ed altre piacevolezze di questo genere.
Né il castigo della frusta, che era
poi un buon nerbo, usavasi soltanto per cotali femmine, ma anche per i poveri
diavoli rei o almeno accusati di piccoli delitti.
Mercoledì mattina, leggesi in un
foglio di di Avvisi di Roma in data 10 febbrajo 1635 — fu frustato per questa
Città con una mitria di carta in testa a cavallo sopra un asino un tale per
testimonio falso, ed il compagno per non essere frustato, mentre in prigione il
boia lo voleva ligare, si diede da se stesso con un coltello nella gola per
ammazzarsi, ma ancora non è morto.
La coltellata fruttò al riottoso due
anni di galera, senza pregiudizio della frustatura eseguita con tutte le regole
una ventina di giorni più tardi, secondo raccontano gli Avvisi del 3 marzo.
Ben altro tormento che le nerbate in
pubblico erano le torture alle quali sottoponevansi gli accusati per
costringerli a confessarsi rei, la confessione e la ratifica essendo
indispensabili, come è noto, per la condanna.
Il Padre Labat,
frate domenicano che viaggiava in Italia al principio del secolo decimottavo,
tra le molte altre curiosità onde sono ripieni gli otto volumi dei suoi Voyages (Parigi Delespine 1730)
ebbe anche quella veramente domenicana di vedere in azione la tortura della
corda e della veglia nel paterno reggimento ecclesiastico.
Profittando della sua qualità di
Provveditore del Sant'Offizio, il Padre Labat potè assistere alle torture così
dette della corda e della veglia e di più ebbe la fortuna di trovarsi presente
in Civitavecchia ad un supplizio di forca.
Di tali spettacoli il bravo
Provveditore scrisse e mandò alle stampe minute descrizioni, con l'aggiunta di
notizie circa gli altri supplizi allora in uso a Roma e provincie.
Il libro dei Voyages del Padre Labat è rarissimo e le sue
descrizioni hanno valore di documenti inediti, non esiste descrizione più
precisa dell'utilizzo della mannaia fatta dal Labat al principio del secolo
decimottavo, la quale mannaia aveva senza dubbio lo stesso meccanismo usato per
le decapitazioni sino dal secolo decimosesto, e non soltanto in Roma, nel quale
è forza riconoscere il modello della futura ghigliottina.
E la
ghigliottina ci riporta difilato al Carnefice Giambattista Bugatti, il
penultimo dei carnefici romani, e senza dubbio il più benemerito di tutti i
numerosi suoi predecessori nella carica. Carnefice modello, e artista veramente
degno del teatro nel quale era chiamato ad agire dal suo impresario, lo Stato e
il Governo Pontificio.
ADEMOLLOdalle
Annotazioni di Mastro Titta Carnefice Romano - Supplizi e Suppliziati -
appendice documenti - Città di Castello 1886