La Croce e la Crocifissione Origini Storiche - Luigi Albano

Luigi Albano
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LA CROCE E LA CROCIFISSIONE
ORIGINI STORICHE

La croce era considerata presso gli antichi Romani, uno strumento ignominioso, il più infame di tutti i supplizi e, nobilitata con la morte di Gesù Cristo divenne l’oggetto il più importante della venerazione dei Cristiani.
La Croce è adoperata in tutte le cerimonie religiose della Chiesa Cattolica: essa è alla testa di tutte le processioni; è l’ornamento principale degli altari, essendo ordinariamente nel mezzo collocata affinché il sacerdote che celebra i tantissimi Misteri, abbia sempre innanzi agli occhi la Passione di Gesù Cristo.

Il Padre Gretzero narra in questa materia una storia meravigliosa, che fa vedere quando sia essenziale, che ci sia una croce sopra l’altare, quando si dice messa.
Un Prete Spagnolo costretto ad afferire il santo Sacrificio innanzi ad un ragguardevole personaggio, non vedendo croce alcuna si trovò intricato forte, e non aveva cuore di cominciar la messa, allorquando un angelo, per levarlo d'impaccio venne a collocare una croce sopra l’altare alla vista di tutti.”
La croce la troviamo anche presso altri popoli antichi, non cristiani, come gli indiani di Comano nelle Americhe Meridionali, questi hanno una venerazione singolare per la croce di Sant’Andrea, alla quale attribuiscono la virtù di allontanare i fantasmi e gli spiriti maligni che hanno piacere di tormentare gli uomini in tempo di notte, e credendo di preservare i loro figlioli da ogni sortilegio gli attaccano al collo la predetta croce.
I popoli dello Jucatan, rendevano alle croci un culto religioso, e mai si è potuto apprendere la provenienza di questa usanza, in merito, interrogati dagli spagnoli, risposero che quel monumento era stato lasciato da un uomo, più bello del sole che era passato una volta nel loro paese. Nell’isola di Cozumel, vi era una croce alla quale si attribuiva la virtù di far piovere, quando il paese era in siccità, gli si offrivano sacrifici e si facevano bruciare dei profumi in suo onore.

(La figura del Crocifisso dai primi secoli a noi)

Moltissime sono le tipologie e modi differenti con le quale gli artisti hanno rappresentato la crocifissione del Redentore, con questo studio cercherò di risalire al modo adoperato sin dai primi secoli nel dipingere e/o nello scolpire il Crocifisso.
Nelle Catacombe e nei monumenti scolpiti, o nei graffiti, noi individuiamo il Cristo rappresentato sotto la simbolica figura del Pellicano, dell'agnello e del Buon Pastore, ovvero in quella dei due profeti: Daniele e Giona.
Talvolta, appare come un giovane senza barba con il bastone dottorale in una mano, con un libro, con il pane propiziatore e talvolta anche con una croce.
In quei primissimi tempi si conservò l'uso di offrire la croce soltanto all'adorazione dei fedeli, questo segno ebbe allora la più grande venerazione, ed ecco anche la ragione perché le prime croci latine o greche erano sfavillanti, circondate da fiori, raggi e pietre preziose. Convertito Costantino al Cristianesimo, le croci si moltiplicarono all'infinito: s'innalzarono sulle pubbliche piazze, si collocarono nelle chiese e se ne adornarono le case.
Si intuisce poi da un certo scritto pagano, insultante il crocifisso, che i cristiani adoravano veramente il Cristo pendente dalla croce, ma non si conosce il modo preciso come questo veniva raffigurato.
Il secondo concilio di Nicea, esalta una croce fatta costruire da S. Procopio martire, sulla quale era inciso in alto il nome di Emanuello e nelle braccia quello di Michele e di Gabriello.
Nelle opere del Gori si trova citato un monumento del VII secolo, il quale rappresenta Gesù, giovane senza barba, ritto in piedi in mezzo a una croce greca, che con le due mani sollevate benedice il mondo ed ha intorno ai quattro lati le figure degli evangelisti raffigurati in tanti medaglioni.
Nel VI secolo, indicato nelle opere di S. Gregorio di Tour, per la prima volta in maniera più certa e precisa risulta essere rappresentata la crocifissione, in relazione alle indicazioni nelle opere di San Gregorio di Tour, il quale riferisce che ai suoi tempi si vedeva nelle catacombe di Narbona un Cristo in croce con “le membra ignude”.
Il concilio di Costantino (692) decretò che alla figura dell'Agnello simbolico fosse sostituita quella del Salvatore crocifisso e da quell'epoca, non è difficile trovare in qualunque monumento cristiano dipinta o scolpita la crocifissione.
Il papa Adriano finalmente, verso la fine del secolo VIII confermò questo uso il quale tra l’altro era già stato comunemente adottata da tutta la cristianità.
Nel 705 fu collocato, per ordine del papa Giovanni VII, nella Basilica di S. Pietro un mosaico nel quale era raffigurato Cristo crocifisso a dimostrazione del modo in cui i cristiani a poco a poco introdussero l'uso di rappresentare i più solenni momenti della passione del Redentore.
Il Cristo di questo mosaico ha gli occhi aperti, la testa diritta, ed è circondato da un'aureola, è vestito con una tunica ed ha il corpo trafitto in croce da quattro chiodi, il suo aspetto è greve e sereno (non da a vedere alcuna sofferenza).
Tale modo di raffigurare il Redentore in maniera placidissima in volto, divenne poi comunissimo nei secoli VIII, IX, X e XI.
Fin dal secolo XI dunque la scena di dolore del Calvario era rappresentata con un Redentore in serenità; per lui – dice uno storico – la croce non era che un trono donde col suo sguardo divino spandeva le sue grazie.
(Nome e universalità)

Strumento di pena capitale presso parecchie nazioni antiche, e quindi metaforicamente la punizione stessa o il patimento che questa infligge, e in generale qualunque dolorosa sofferenza e dura prova. Vediamo quindi anche presso i Romani in uso fin di buon'ora la voce crux per indicare qualunque supplizio e tormento morale, come dalle frequenti espressioni di Plauto e Terenzio: quaæ temala crux agitat? (quale malanno ti travaglia?), ed il vocabolo cruciarius per significare un furfante, un ladro sperimentato degno del patibolo.
La croce nella sua forma più semplice di due aste di legno, l'una verticale, l'altra trasversale ad angoli retti, fu in uso fin dai primordi dell'umana società, ed il costume di adottarla come strumento di supplizio ebbe forse sua origine nel vedere sovente i rami degli alberi foggiati a croce, che sembrano essere stati le prime croci di cui le genti si valessero.
Era certamente consuetudine presso le tribù, qua e là vaganti, di appendere un malfattore a un albero, che dai Latini si disse malaugurato, infelice (arbor infelix), e Cicerone fa mostra di considerare l'impiccamento a un albero e la crocifissione come una stessa cosa, appellandosi poi da Seneca sciagurato, infelice legno (infelix lignum) la croce.
Si sa del resto che gli alberi si adoperavano per le croci e comunque le impiccagioni avevano sembianza di crocifissione, per esempio quella di Prometeo e Andromeda e inoltre si trovano tracce di questo tremendo strumento di pena anche presso gli Sciti, i Persiani, Cartaginesi, Greci, Romani ed antichi Germani.
Quale simbolo religioso il segno della croce lo incontriamo fra parecchi antichi popoli, che Tertulliano definisce devoti della croce (crucis religiosi).
Nelle cerimonie degli Indiani e degli Egizi compare sovente la croce a forma di T, e altre volte riportata come segno algebrico +.
Ker Porter vide a Susa, nella Persia, una pietra intagliata d'iscrizioni geroglifiche e cuneiformi, in cui vi era a uno degli angoli la figura della croce.
Lo stesso viaggiatore osserva che si considerava in quel luogo la croce come simbolo della divinità o della vita eterna, e si vedeva certamente una croce nel tempio di Serapide, qual emblema egizio della vita futura che i sacerdoti egiziani attribuivano la conservazione del tempio di Serapide, lasciato intatto dall'esercito vincitore sotto Teodosio, con le croci alle sue pareti.
Se ci atteniamo alle numerose opere su questo argomento di La Croze, Jablonski, Zoega, Visconti, Pococke, Pluche, Petit Radel, ecc., pare che il simbolo della croce abbia avuto diversi significati, per esempio, del pianeta Venere, del Nilometro, dei quattro elementi o delle quattro stagioni (Creuzer, Symbolik, p. 168).
Non bisogna dunque meravigliarsi se parecchi autori cristiani e antichi e moderni, parlando della croce, si abbandonassero al misticismo e ai voli della fantasia, per esempio, san Giustino martire (Apol., I, 3 72), ove dice: « In tutta la natura è impresso il segno della croce, e trovasi appena appena un artigiano che non l'adoperi fra gli arnesi della sua industria; forma parte dell'uomo stesso, se costui alza le mani alla preghiera ».
Gli fa eco Minuzio Felice (c. 29) dicendo: « Sembra che la natura stessa abbia formata questa figura per noi; si ha una croce naturale in ogni nave a vele spiegate, in ogni giogo formato dall'uomo, in ogni espansione delle sue braccia per la preghiera, e questa si è la croce che trovasi e negli ordinamenti della natura, e fra i pagani ».

(Varie specie)

Secondo le dottrine di Lipsius, (De cruce, 1, 5-9) e di Gretser, (De cruce Christi, vol. I, c. 1), le croci sono in generale di due specie:
1° croce semplice (crux simplex);
2° croce composta o compatta (crux composita, compacta).
Consisteva la prima in un pezzo di legno cui era legato o infitto il malfattore; per eseguire la pena della legatura bastava un albero qualunque, o un'asta di legno su cui l'individuo legato o rimaneva fino a tanto moriva.
Per l’infissione (infixio) invece si sceglieva un lungo e aguzzo pezzo di legno, un palo propriamente detto, su cui infiggevasi il reo facendolo passare per il dorso e per la spina dorsale, ed uscire per la bocca.
Seneca (Consolat. ad Marc., c. 20) descrive questa maniera orribile di supplizio, notando che le croci in quell’epoca erano di varie fogge, a seconda dei vari popoli, alcuni dei quali vi affiggevano il delinquente con il capo all'ingiù, mentre altri ne attraversavano il corpo; tanta crudeltà era in uso nella Russia, nella Cina, nella Turchia ed altrove.
Le croci composte erano di tre specie:
1° croce decussata od a foggia di X (crux decussata);
2° croce commessa (crux commissa);
3° croce immessa o capitata (crux immissa, capitata).
La prima, si diceva nel medioevo essere la croce di Sant'Andrea, per la tradizione vigente che questo apostolo avesse subita la morte su una croce così composta che più tardi si chiamò in Francia croce di Borgogna.
La seconda ha la forma del T, fu descritta dal poeta cristiano Sedulio, fiorente verso il 450 dopo Cristo che gli iconografi attribuiscono all'apostolo san Filippo.
Questa forma di croce si riferiva ad alcune idee mistiche dei cristiani intorno alla lettera T, il tau degli Ebrei, credendo di ravvisare la lettera stessa nel segno che il profeta Ezechiele dice di mettere in fronte a quelli che gemono.
Si noti inoltre che i primi cristiani, vedendo in Egitto in mano agli idoli una specie di chiave a manico o sormontata da un anello, simbolo della vita divina, supposero che fosse un segno profetico della redenzione conservato dagli Egizi, e quindi questo simbolo della mitologia egizia, che si credette di riscontrare presso gli Etruschi e altri popoli antichi, ebbe dagli eruditi la denominazione di croce a manico o ad anello, e con biasimevole gallicismo di croce ansata.
La terza, detta anche croce di Cristo, è formata da un'asta lunga perpendicolare, e da un'altra più corta trasversale, messa orizzontalmente alla metà, al terzo o anche meno, della lunghezza della prima, rappresentandosi comunemente col segno T che s’incontra più sovente degli altri nei sacri dipinti, e si crede che su tale croce sia spirato l'estremo il Salvatore del mondo.
Nei sacri edifici e specialmente nella pianta delle antiche basiliche si nota la forma della croce cosi detta greca, in cui l'asta trasversale è nel bel mezzo della perpendicolare, mentre la croce latina con un asta trasversale ad un terzo circa della perpendicolare prevale nelle chiese e nei tempi di costruzione più recente.
Vi è pure la croce russa o di Lorena con due piccole aste trasversali, una più lunga e l'altra più corta, ed è la sacra insegna dei legati pontifici, dei primati e patriarchi, senza parlare di molte altre forme introdotte negli stemmi e nelle armi durante il dominio feudale.

(La Croce del Redentore)

Dobbiamo ricorrere agli storici ecclesiastici bizantini per averne precisa contezza, e in specie a Socrate, a Sozomeno, Rufino, Teodoreto ed allo stesso Eusebio, che nella sua Cronaca assegna il 325 dopo Cristo alla scoperta fattane da sant'Elena in Gerusalemme, sebbene ne taccia poi nella Storia ecclesiastica e nella Vita di Costantino.
Vi aggiungono la loro testimonianza san Cirillo di Gerusalemme, asserendo di aver veduto con i suoi propri occhi codesta preziosa reliquia, sant'Ambrogio che fu il primo a notare le parole del vescovo gerosolimitano, Sulpizio Severo, san Paolino, san Girolamo e san Giovanni Crisostomo, che ripetono in coro la stessa cosa.
Parve ad alcuni critici poco probabile che dopo trecento anni, e dopo gli scavi che si erano eseguiti sull'area della distrutta Gerusalemme per costruirvi nuovi edifici, fosse riuscito a sant'Elena di scoprire lo strumento della passione di Cristo, e quelli pure del supplizio dei due ladroni.
Giova poi avvertire che codesti strumenti di pena non potevano essere stati sepolti a grande profondità, e che i pagani, nell'atto di elevare monumenti ed altari ai loro numi ove torreggiava un dì il tempio del famoso Dio, per il disprezzo con cui guardavano quegli oggetti per essi infamanti, non si sono curati di disseppellirli e metterli in disparte.
Eccone pertanto la storia: l'imperatrice Elena, dichiarata poi santa dalla Chiesa, nell'età bene avanzata di 79 anni, mossa da ardente pietà, si recò a visitare i luoghi santificati dalla presenza e dai patimenti del Salvatore.
Giunta a Gerusalemme, si portò al monte Calvario, su cui sorgeva già un tempio di Venere, e ivi, con la guida di un erudito ebreo che aveva raccolte religiosamente e conservate tutte le tradizioni riguardanti quel sito, fece fare degli scavi, ed ecco comparire tre croci, ed anche il cartello di quella del Salvatore, ma staccato dal tronco.
Non era facile quindi discernere questa dalle altre due, e fu mestieri ricorrere ad un ingegnoso espediente, suggerito dal vescovo di Gerusalemme Macario. Consisteva questo nel porre a contatto gli ammalati con le tre croci estratte dal suolo, e nell'ammettere per vera quella che avesse operato il miracolo della guarigione in quei miseri.
Una sola delle tre rispose portentosamente alla prova, e per conseguenza fu riconosciuta ed accettata per vera, come diffusamente si legge in Tillemont (Mem. eccles., nel capo sant'Elena).

(Onori e prodigi)

L'imperatrice, lieta di tanto successo, fece subito edificare una chiesa nel sacro luogo, e vi depose la porzione principale della vera croce, trasportando la rimanente a Costantinopoli, ove Costantino ne inserì un pezzo in una sua statua, e ne spedì un altro a Roma, in cui si fabbricò appositamente la chiesa di Santa Croce in Gerusalemme per accoglierlo.
Si stabilì poi la festa di tanta scoperta, il vescovo di Gerusalemme mostrava con compiacenza ai devoti pellegrini, accorrenti da tutto il mondo cristiano, l'oggetto prezioso.
La vera croce era diventata ormai il Palladio dell'impero, conservandosi gelosamente a Gerusalemme ed a Costantinopoli, e fu grande la costernazione dei fedeli, nel 614 dopo Cristo, quando il feroce Cosroe II, presa Gerusalemme, tolse il santo legno alla sua capitale.
Ne fremette l'imperatore Eraclio, ma non seppe subito vendicare l'insulto, e aspettò per quattordici anni  al termine dei quali riportò una splendida vittoria su Siroe, figlio e successore di Cosroe II, riprese la croce e la portò in trionfo, prima a Costantinopoli e poi a Gerusalemme.
Avvicinatosi in pompa magna a cavallo, con sfarzo di armi, bardature e bandiere, dovette fare sosta d'improvviso, perché le porte della città erano chiuse e gli fu vietato l'ingresso.
Pur non conoscendo la causa del divieto, depose le vesti imperiali e indossati i rozzi panni, a piedi nudi con la sacra croce sulle sue spalle si diresse alle porte, che al suo giungere, umile e penitente,  spontaneamente si schiusero, ed egli entrò, deponendo il segno della redenzione sotto la cupola del santo sepolcro.
Niceforo pretende che i Persiani abbiano rispettato la croce senza aver osato neppure di violare il suggello del prezioso astuccio, il che però non impedisce agli Armeni di mostrare i pezzi della vera croce, che dicono avere staccato durante la conservazione della medesima in Persia (Lebeau, Histoire du Bas-Empire, t. Ix, p. 169).
Narrasi poi, a tenore delle annotazioni del martirologio di Adone, che nel gaudio universale per la restituzione a Gerusalemme della vera croce, esultarono di viva gioia e riconoscenza anche gli ammalati, essendo guariti al suo ingresso quattro paralitici, dieci lebbrosi e quindici ciechi, oltre ad una moltitudine di persone affette da minori infermità; vi fu persino un morto risuscitato.
La Chiesa cattolica decretò due feste che ne ricordassero l'invenzione e il riacquisto, la prima col titolo appunto d'Invenzione della Santa Croce, il 3 maggio, registrata già nel Sacramentario di san Gregorio Magno, e la seconda con quello di Esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre d'ogni anno.
Non è però confondibile con questa seconda la festa dello stesso nome e giorno nella Chiesa greca, la quale non è che un complemento, in qualche modo, della festività della Risurrezione.

(Titolo e sue vicende)

Benché della vera croce non si abbia più contezza dal 637 dopo Cristo in poi, anno in cui i Saraceni conquistarono Gerusalemme, tuttavia se ne conserva in Roma il ligneo titolo, non intero con soltanto alcuni minuti frammenti di lettere ebraiche, di maniera che non si può comprendere.
I caratteri greci e latini, tranne la Z, sono tutti scritti all'orientale da destra a sinistra, o perché furono segnati da un Ebreo che volle seguire l'uso nazionale, o forse perché l'ignoto scrittore romano intese adattarsi all'uso medesimo.
Niceto (Titulus Sanctæ Crucis) ritiene che la scritta non sia lavoro di una sola mano, perchè le lettere romane sono precisamente intagliate, mentre le greche sono difettose, ed è perciò di avviso che i caratteri ebraici o aramaici e i greci siano stati scolpiti da un Ebreo mentre quelli latini da un Romano.
Spedito a Roma con un pezzo di croce da Costantino, fu deposto dentro una cassa di piombo sopra la volta della chiesa di Santa Croce, in un finestrino, e poi murato, indicandone il vero ripostiglio nell'esterna iscrizione in mosaico.
Il tempo lo rese quasi illeggibile e la finestra, per l'incuria dei muratori restauratori della chiesa, fu accidentalmente sfondata e così la reliquia venne scoperta, il che fu tutto autenticato da una bolla di Alessandro III, papa dal 1159 al 1181.
Le lettere trovate nel titolo, prese secondo il loro valor numerale, danno la cifra 1532, il che aveva indotto Stifelius a dichiarare per questo anno il finimondo, profezia che fu smentita dalla continuata esistenza mondiale, come tutte le altre profezie dei finimondi.
L'inglese Jartin nei suoi Remarks upon ecclesiastical history (vol. 3°) fece innumerevoli appunti sia intorno alla scoperta sia sull’autenticità della croce.
Obiezioni, che secondo gli studioso cattolici del tempo senza alcun fondamento storico se si pensa che nessuno degli autori trattanti l'argomento diede la descrizione minuta delle tre croci estratte dalle macerie sotto il tempio di Venere, perchè nessuno di essi ne fu testimonio oculare.
Sembra che le croci fossero molto somiglianti tra loro, e nient’altro che un miracolo poteva far distinguere quella del Redentore, poi tutti dichiarano che le croci erano di legno, ma nessuno ne determinò la specie, e non ne fanno menzione neppure i quattro storici da noi citati della tradizione, con cui si risale ai tempi di san Giovanni Crisosostomo.
Nessuno dunque può sostenere che la vera croce fosse composta di tre specie di legno: cipresso, pino e cedro, o anche di quattro: cedro, cipresso, palma ed ulivo, giusta i tre versi latini:

Quatuor ex lignis Domini crux dicitur esse;
Pes crucis est cedrus; corpus tenet alla cupressus;
Palma manus retinet; titulo lætalur oliva.

(Dicesi che la croce del Signore sia di quattro legni: il piede della croce è cedro, alto cipresso tiene il corpo; la palma sostenta le mani; e del titolo va lieto l'ulivo).
Lipsio nel suo trattato De cruce è invece di parere che la croce fosse di quercia, essendo probabile che sia stata fatta di questo legno, perché il più abbondante e alla mano in tutta la Giudea; ed anche le odierne reliquie somigliano alla quercia.

(Vera forma della Croce)

Secondo l'avviso di sant'Ambrogio (Oratio de obitu Theodor., p. 498), il pezzo di legno avente il titolo era collocato in cima alla croce del Signore (Joh. XIX 19-22; Matth. XXVII 37; Marc. XV 26; Luc. XVIII 18).
Dal linguaggio degli evangelisti sembra che il titolo fosse affisso alla sola croce di Cristo, e quindi non se ne poteva muover dubbio, sebbene Rufino si esprima che l'umana incertezza in proposito aveva bisogno di divina testimonianza (hic jam humanæ ambiguitatis incertum, divinum flagitat testimonium).
L'incertezza fu cagionata dall’eccessiva fretta di sant'Elena di spezzettare la croce, destinandone un pezzo per Costantinopoli, l'altro per suo figlio Costantino, ed il terzo da conservarsi in Gerusalemme.
Non si poté dunque accertarne la forma, la quale poteva essere stata o immessa o capitata, essendo comunemente in uso ai tempi di Cristo, e ravvisandosi sulle medaglie e nel cosi detto monogramma o intreccio delle due iniziali greche X e P, esprimenti il nome in greco di Cristo.

(Uso e culto del segno della Croce)

Ammessa una volta dai fedeli l'autenticità della croce, divenne questa per i medesimi non solo segno simbolico di venerazione, ma ben anche segno di possente virtù, che discacciava i demoni, guariva dai mali, preservava dai pericoli e compiva numerosi prodigi.
Indi l'importanza che annettevasi al segno della croce, praticato da prima come mezzo di ricognizione fra i cristiani e introdotto di buon'ora qual simbolo nel culto.
Si cercò farne risalire l'uso all'epoca apostolica, perché fu già adottato agli albori della nascente Chiesa nonchè da vari passi di Tertulliano, san Cirillo Gerosolimitano, san Giovanni Crisostomo, ecc.
I fedeli in ogni istante si facevano il segno della croce, partendo dalla fronte, alla bocca e al petto, com’è costume anche oggi, e più tardi portando la mano destra alla fronte, al petto, al lato sinistro e da ultimo riportandola al destro, tranne che nella Chiesa orientale, in cui si fa il movimento della mano da diritta a sinistra e non viceversa.
Anticamente si faceva il segno della croce con un solo dito, ma dopo la condanna dei monofisiti, sostenitori dell'unica natura in Cristo, si adoperarono tre dita, per rammentare le tre persone divine della Santissima Trinità, il cui nome costituisce la formula sacramentale del segno suddetto.
Se ne valse Costantino affiggendola alle militari insegne del suo esercito nella forma del succitato monogramma, e dopo la famosa vittoria sopra Massenzio, il 28 ottobre del 312, rimase sempre sullo stendardo imperiale con il motto  latino “In hoc signo vinces”, e si disse il labaro tutto smagliante d'oro e di gemme.
La croce però non essendo da principio che un mero simbolo, non ebbe culto, giusta l'espressione di Minuzio Felice nel suo Ottavio: Crucem nec eolimus, nec oramus (nè culto nè pregi rivolgiamo alla croce); ma poco a poco le virtù meravigliose che vi si ravvisavano, diedero origine a un vero culto, che crebbe ancor più quando si adottò l'uso di apporvi l'effigie del Salvatore.

(Numeri dei chiodi)

Oltre alla vera croce, l'imperatrice sant'Elena ritrovò anche i chiodi della crocifissione, e sembra che più tardi si siano rinvenuti anche altri vestigi della Passione, e Andrea di Creta ci assicura che si diceva essere state scoperte contemporaneamente anche la corona di spine e la lancia che forò il costato al morto Gesù.
Si disputò molto dagli eruditi sul numero dei chiodi della vera croce, perché gli storici dell'invenzione della medesima non lo precisarono.
Il poeta Nonno, fiorente nel VI secolo dopo Cristo, autore di una parafrasi del Vangelo di san Giovanni, asserisce formalmente che erano soli tre, e gli servì di guida in ciò san Gregorio Nazianzeno, anteriore di tre secoli.
La credenza più comune ne ammette però quattro, e viene raffermata con molta prolissità e curiosi argomenti da Curtius, frate agostiniano, all’inizio del 1700 nel suo trattato “de clavis dominicis”, mentre parecchi altri ne spacciarono fino a quattordici.
Si Dice che uno dei quattro chiodi fu buttato dall'imperatrice Sant'Elena in mezzo alle onde spumanti dell'Adriatico, che a quella caduta per un istante si calmarono; il secondo fu posto da Costantino o sull'elmo o sulla corona, ma fu poi ritrovato mozzo nella chiesa di Santa Croce; si conserva il terzo nella basilica di Monza, dentro la cappella detta appunto del Santo Chiodo, ed è quello che forò, secondo Eutropio, una delle mani del Salvatore, e fu adoperato da Costantino come ornamento della briglia, a tenore delle parole di Zaccaria: in quel di sarà sacro al Signore ciò che sta sopra la briglia; ed il quarto, che dicesi del piede diritto, si conserva nella cattedrale di Treveri.

(Crocifissi e portenti)

Le particolarità dell'esecuzione artistica nel formare i crocifissi variarono secondo le epoche e i luoghi, e quindi nelle immagini antiche della Chiesa greca si vede sovente rappresentato Cristo, per decenza, in lunga veste, cui fu in seguito sostituito con una specie di corta giubba, per esempio, nel crocifisso dell'antica chiesa del Santo Sepolcro a Parigi ed in Santi Cosma e Damiano a Roma.
Prevalse più tardi l'uso di cingere l'effigie del Salvatore sofferente soltanto di un perizoma, adoperando quattro chiodi, uno per ciascun membro.
Dal terzo secolo in poi fu preferito l'uso di soli tre chiodi, essendo forati ambedue i piedi da un solo e medesimo chiodo, oppure sorretti da uno sgabello infisso al tronco da codesto chiodo stesso, e talvolta si vedono con lo sgabello anche due chiodi, come, per esempio, sopra una coperta di avorio di un evangeliario del secolo IX (Gori, Thesaurus veter, diptych., t. III, tav. 33).
Il crocifisso si vede per lo più con la corona di spine, ma talvolta anche con la fronte cinta di un diadema, ed altresì con le chiome lunghe ed ondeggianti, come sulla famosa porta maggiore della cattedrale di Novogorod, detta la porta chersonesiaca, illustrata dall'Adelung e altre colte col capo cinto solamente di luminosa aureola (caput radiatum).
Lo strumento dell'umana redenzione diede origine a leggende di ogni genere, si narra che l'albero della croce, piantato da Loth, od anzi dallo stesso Adamo fin dal principio del mondo, era uscito da un granello o da un rampollo trasportato dal paradiso terrestre, aveva servito alla costruzione del tempio di Salomone, ecc.; racconti derivanti dalle idee mistiche che si associavano alla croce.
Buone leggende furono divulgate alla pietà dei fedeli intorno a prodigiose apparizioni di croci luminose nell'aria e simili delle quali non occorre qui parlarne; e molto meno dell'abuso fatto dalla malizia di taluni per fini umani.
Parecchi crocifissi vengono indicati non solo per avere operato miracoli, ma anche per avere dato segni di vita, trasportandosi, per esempio da un luogo all'altro, muovendo la testa gli occhi, ecc.
I più celebri in questa categoria sono il crocifisso di legno nella chiesa di San Giacomo Maggiore in Bologna; il grande crocifisso di San Domenico a Napoli, che diresse la parola a san Tommaso d'Aquino; quello di san Francesco in Assisi; e finalmente il celebratissimo Volto santo di Lucca, attribuito a Nicodemo.

(La Crocifissione - Definizione e natura)

L'atto del mettere, del configgere in croce, che i Greci esprimevano con il verbo alzare in croce e i Latini con le frasi cruci affigere, in crucem agere o tollere, e più tardi cruci figere.
Era uno dei più crudeli supplizi presso tutti i popoli antichi e i Romani, fortunati conquistatori del mondo, ebbero il poco invidiabile merito d'introdurlo anche dove prima non esisteva.
Così fecero nella Giudea, in cui non si conosceva codesto genere di tormento, nè vi era il vocabolo che lo esprimesse; ed infatti non si incontra il verbo crocifiggo neppure una sola volta nella versione dei Settanta di tutto il vecchio Testamento, e se leggesi nel libro di Esther per la morte di Aman, non ha altro significato che quello di impiccare.
Tale era pur quello in lingua siriaca zelibo, indicante la croce, di cui l’arabo salib ed il rabbinico zelub, che indicava proprio la forca, e lo stesso talah ebraico usato per esprimere crocefissione non indica altro che una specie di dello stare appesi, e perciò anche Cristo nei libri degli Ebrei viene chiamato talvi (appeso).
Per la crudeltà e infamia la crocifissione veniva dagli antichi scrittori definito crudele e sciagurato dei supplizi, la pessima delle punizioni possibili, la Pessima delle pene al mondo (Paull., v. 17).
Era essa il supplizio principalmente degli schiavi, e appunto per ciò si denominato servile supplicium, e lo schiavo veniva appellato vitupero furcifer (portatore della forca o croce).
Anche le persone nate libere erano condannate alla crocifissione, ma soltanto i cosi detti umili (humiles), ossia di bassa condizione e provinciali, perché i cittadini non potevano essere crocifissi.
Questa pena era riservata ai più enormi misfatti, per esempio, rapina, pirateria, assassinio, spergiuro, sedizione, tradimento e diserzione militare.
(Origine e modo)

Antichissima è l'origine, e leggesi di già in Tucidide che Inaro, uno dei re africani, fu crocifisso dagli Egizi, e si sa molto prima da Erodoto che la stessa sorte era toccata da parte dei Persiani a Policrate, aggiungendo nel medesimo libro che Dario I, dominante dal 522 al 485 avanti Cristo, fece porre in croce non meno di 300 persone dopo aver espugnata Babilonia.
Valerio Massimo asserisce che la crocifissione era la pena comune dei militari presso i Cartaginesi, che deve essere stata adottata anche dai Greci, perché nell'espugnazione di Tiro vediamo che Alessandro il Macedone fece Crocifiggere lungo il lido del mare ben 2.000 prigionieri di guerra.
Fu in uso presso i Romani fin dai primordi della loro esistenza politica, la ritroviamo nel 667 avanti Cristo, per sentenza dei duumviri il superstite degli Orazi, vincitore dei Curiazi senza la grazia che gli fece il popolo, amando meglio di ammirare in lui vivo il vincitore dei suoi nemici, che piangere in lui crocifisso l'uccisore dell'incauta sorella.
Tarquinio il Superbo, settimo ed ultimo re di Roma, dal 534 al 509 avanti Cristo, fu il primo però ad ordinare che tutte le pene capitali venissero eseguite con la crocifissione, la quale sembra sia stata preceduta sempre dalla flagellazione (verberatio), che divenne poi di costume, e fu perciò applicata anche alla persona del Redentore.
San Girolamo poi ci assicura (Epist. ad Eustach.) che la colonna a cui stette legato Gesù durante codesta tormentosa operazione, si vedeva ancora ai tempi suoi nel portico del Santo Sepolcro, con le macchie non cancellate.
I Romani furono prodighi della pena di morte con la crocifissione nelle regioni orientali da essi occupate, e specialmente nella Palestina prima e dopo l'era volgare, e purtroppo si sa che Tito fece crocifiggere, alla presa di Gerusalemme, innumerevoli Ebrei, condannandone al supplizio fino a cinquecento al giorno che, a detta di Giuseppe Flavio, il terreno mancava alle croci e queste ai corpi.
Subita la flagellazione il condannato doveva egli stesso portare la sua croce, od almeno l'asta trasversale della medesima, che si diceva patibolo (patibulum) dal latino pateo (sono esposto, sto in vista, ecc.), al luogo dell'esecuzione (Plut., De tard. Dei vind., 9; Artemid, 11, 41), ch'era per lo più in qualche sito frequentato fuori delle mura, mentre l'asta verticale o croce propriamente detta (erna) stava di già fitta nel suolo.
Giunto alla meta prefissa, il condannato riceveva una pozione inebriante di mirra distillata e altre erbe amare e spogliato delle sue vesti veniva tirato su ed affisso alla croce, a forza di chiodi nelle mani e più di rado nei piedi, attaccati ed infitti entrambi talvolta mediante un chiodo trasversale (Tertull., Adv. Jud., x; Sen., De vita beata, 19; Lactant., v, 13).
Venivano questi anche semplicemente legati alla croce a mezzo di funi, e Senofonte asserisce che era in uso presso gli Egizi di legare allo stesso modo sia le mani che i piedi.

(Titolo, patimenti ed esecuzioni)

Si Poneva in cima alla croce una tavoletta, un cartellino di legno ossia l'insegna o titolo (titulus) indicante il delitto vero o supposto del giustiziato, il cui corpo si appoggiava ad una specie di sedile (Svet., Cal., 38; Dom., 10; Euseb., Hist. Eccl., vi, 1; Iren., Adv. Her., II, 42).
La persona posta in croce moriva fra gli spasimi i più atroci, e tanto ne era lo strazio, che persino nel bollore delle stragi guerresche i crocifissori verso le loro vittime esprimevano un senso di pietà.
Così Giuseppe Flavio narra (De bell. Jud., v, XI, 1) che Tito si commovesse anch'esso, senza però frenare le inferocite sue milizie, alla vista delle flagellazioni, torture e sevizie di ogni genere, con cui i soldati romani sfogavano la cocente loro ira contro gli Ebrei, e li crocifiggevano, assetati di sangue e vendetta, davanti le mura di Gerusalemme.
Le sofferenze dei pazienti venivano talvolta abbreviate e scemate dalla frattura delle loro gambe (crura fracta).
Dopo morte i pagani avevano l'uso di lasciare in croce le persone ivi affisse, finché i fracidi cadaveri ne cadessero a frusti, o fossero divorati dagli uccelli di rapina (Horat., Epist. I, 16, 48, le parole Non pasces in cruce corvos, dirette ad uno schiavo, confermano tal uso, attestato pur da altri, per esempio, Plaut., Mil. Glor., II, 4, 19; Plim., Hist. Nat., xxxvi, 24); e per ciò appunto stava accanto alla croce una sentinella, che impediva la sepoltura dell'estinto (Plut., Cleomen., 39; Petron., Satyr., III, 6; Sen., Ep., 101).
Gli Ebrei invece avevano l'uso di trarre giù dalla croce il cadavere e dargli sepoltura, come ci avverte Giuseppe Flavio (De bell. jud., v, 2), dicendo che erano soliti prendersi gran cura nel deporre dalla croce le persone ivi confitte e seppellirle prima del tramonto del sole.
Ma affinchè fosse ad un tempo stesso e accelerata la morte ed inviolata la legge, a tenore del prescritto dal Deuteronomio (XXI, 23): Non rimarrà il cadavere di lui infitto al legno, ma quel di medesimo verrà sepolto, perchè è maledetto da Dio chi sta penzoloni sul legno, solevano frangerne le gambe (Johan., xxix 2t; Deut., xxI, 22; Casaub., Evere. Antibaron, p. 537; Lipsius, De cruc., lib. III).
In qualche caso era possibile il richiamare alla vita quelli che fossero stati crocefissi, adoperando gli opportuni trattamenti suggeriti dalla medica scienza, purché ciò si facesse dopo breve ora.
Troviamo quindi in Giuseppe Flavio, testimonio oculare delle orribili carneficine delle soldatesche romane, dopo la distruzione di Gerusalemme, che tra molti prigionieri crocifissi ve n'erano tre di sua conoscenza, e che egli ottenne da Tito, con le lacrime agli occhi, che venissero tolti giù dalla croce.
Appena staccati, furono prodigate loro le più sollecite cure per restituirli alla vita; ma due soccombettero sotto le mani del medico, mentre il terzo fu ricuperato e guarì (Joseph. Flav., Vit., 75).
L'esecuzione della pena capitale sulla croce si compiva per mano del boia o carnefice (carnifex), assistito da un drappello di soldati, ed in Roma sotto l'ispezione dei triumviri così detti capitali ossia ispettori delle persone condannate nel capo (Tac., Ann., XV, 60; Lactant., Iv, 26).
Le notizie che ci lasciarono gli Evangelisti sulla crocifissione di Gesù Cristo concordano appieno con le costumanze e pratiche dei Romani.
Codesta pena continuò nell'impero romano fino ai tempi di Costantino, in cui fu tale e tanta l'influenza della religione della croce, che questo segno augusto dell'umana redenzione non si contaminò più con la morte dei malfattori sebbene nella prima metà del suo governo Costantino lo avesse conservato a tal uopo.

(Lentezza del morire e ritorno alla vita)

Molto si disputò e si scrisse dai fisiologi sugli effetti della crocifissione sull'organismo umano, essendosi costantemente osservato che la morte giungeva assai lenta negli individui che la incontravano.
Il termine della vita era più o meno ritardato, a seconda della diversa costituzione del paziente, dell'intensità dei raggi solari e delle condizioni atmosferiche.
Si potè però con sicurezza riconoscere che non succedeva la morte finchè l'infiammazione locale non avesse compiuto il suo corso; e sebbene questo processo patologico possa venire accelerato di molto dai dolori strazianti e dall'alternata esposizione ai raggi del sole e alla fredda aria notturna, non si compie però prima delle 48 ore, in circostanze ordinarie e nelle costituzioni sane; cosicchè il periodo più celere della morte in causa di crocifissione, negli adulti e sani, non è mai minore di 36 ore.
Fu di già notato nella storia medica che molti soldati feriti nella battaglia di Waterloo furono trasportati agli ospedali dopo di essere rimasti giacenti per tre giorni sul campo, ed alcuni di essi poterono ancora sopportare le più dolorose operazioni chirurgiche ed essere ridonati alla vita.
Nè giovi l'obiettare che non si ebbe forse abbastanza riguardo nel calcolo appena stabilito al calore dei climi orientali, perchè si citano molti casi di persone che sopravissero anche più a lungo di quanto si disse, perfino otto e nove giorni.
Eusebio (Hist. Eccl., III, 8) narra che vari martiri in Egitto, crocifissi con il capo in giù, perirono di fame, nel che si deve ben badare di non prendere un abbaglio.
Era naturalissimo il supporre da parte di qualsiasi osservatore, che la fame fosse stata la causa della morte in alcune persone crocifisse, sapendo che non avevano ricevuto cibo di sorta, e vedendo emaciato il corpo, il che deve essere accaduto nello stato protratto di crocifissione.
Ma giovi pur rammentare che la permanenza dei chiodi infitti nelle mani e nei piedi deve aver prodotto nei pazienti tale grado d'infiammazione da cagionare la gangrena e da ultimo la morte, come avviene sempre in simili casi, nei quali per conseguenza il cibo non ha tanta virtù da sostenere e conservare la vita.
Inoltre, dopo le prime poche ore, appena eccitata la febbre, il paziente perde l'appetenza del cibo, ed anela piuttosto a dissetarsi con l’acqua. La mancanza dunque di questa diventa una privazione assai dolorosa, e fa sì che la morte giunga più celere.
Così, per esempio, il celebre scrittore arabo As-Stjuti ci diede una relazione di qualche rilievo sulla morte di un giovane turco, crocifisso a Damasco nel 1247, notando specialmente che aveva inchiodati piedi e mani, e perfino le braccia, senza dire però se l'inchiodatura avesse alcunchè di particolare.
Dolevasi il misero di un'intensa ed ardente sete, fin dal primo giorno del suo supplizio, ed i suoi tormenti crescevano a mille, alla vista continua delle acque della Barada, sulle cui sponde era crocifisso.
Si mantenne in vita in così dolente e disperatissimo stato per ben due giorni, dal venerdì alla domenica.
Quanto mai sono crudeli e tristi gli oppressori dell'umanità, che si pascono e deliziano degli spasimi, delle angosce e delle mortali agonie dei loro simili (Kosegarten, Chrestomathia arabica, p. 63).

(Simboli ed umani lineamenti)

La morte del Salvatore mediante la crocifissione fu venerata con riverente affetto dai primi fedeli, ma sotto a simboli che efficacemente la rammentassero, fra cui ebbe per sette secoli la preferenza quello dell'agnello, raffigurante il Cristo, che mite ed umile s'immola per la salvezza del mondo.
Il concilio costantinopolitano del 961 ordinò che Gesù Cristo non venisse rappresentato più sotto codesta simbolica figura, ma con umani lineamenti, e da quell'anno in poi si vide sulle croci l'immagine di Cristo in rilievo, ossia si ebbe il crocifisso propriamente detto, il crocifisso per eccellenza.
Già fin dalla metà del secolo IV si rappresentava il volto di Cristo dipinto in rilievo; più tardi l'intera sua effigie, dapprima vestita e poi nuda, come il crocifisso di Narbona di cui parla san Gregorio di Tours, e che il vescovo del luogo teneva coperta di un velo.
L'uso dei crocifissi in alto rilievo cominciò ad essere alquanto generale sotto i pontefici Leone III (795-816) e Stefano V (816-817) al finire dell'VIII e cominciare del IX secolo, ma dopo vivi ed ostinati contrasti.
Ammesso una volta il principio della rappresentazione, si passò ben presto agli abusi e si moltiplicarono ovunque i crocefissi semoventi, agitanti alcune membra, o a forza di fili messi in moto, o di meccanismi più o meno ingegnosi, e fu mestieri di più di un concilio per abolire codesta statuaria automatica.
La Chiesa si mostrò contraria alle immagini in plastica, e più condiscendente per quelle in pittura; ed ha ragione, perche la statuaria, espressione diretta e spiccata della bellezza delle forme, richiamava di soverchio le reminiscenze pagane ed avrebbe in quei primi tempi favorito l'idolatria, mentre la pittura, meno materiale, più trasparente in qualche maniera, più adatta a riflettere l'interna bellezza ed a tradurre le impressioni morali, si avvicina assai più allo spiritualismo delle credenze cristiane.
La Chiesa cattolica non fa distinzione di sorta al di d'oggi tra l'una arte o l'altra, appellandole tutte egualmente a farsi promulgatrici delle sue idee e dei suoi dogmi, ed offrendo loro nella spiritualità dei concetti cristiani la meta più sublime e benefica che possano e debbano attingere.

(Bibliografia)

1. LIPSIE, De cruce nel vol. IV delle opere di questo erudito letterato;
2. GRAETSERUS, De cruce Christi, nune tertia editione multis partibus auctus, ut ferme novum opus videri possit (Ingolstadt 1608);
3. PARS ALTERA (1608);
4. MANTISSA ad primum tomum de sancta cruce editum et locupletalum (questi libri formano i vol. I, II e III delle opere di Graetser);
5. BAUDIS, Crux Christi ex historiarum monumentis constructa (Viterbo 1669, in - 4°);
6. SCHLICHTER, De cruce apud Judæos, Christianos et Gentiles signosalutis (Halla 1733, in - 4°);
7. AUGUSTI, Handbuch der christlichen Archäologie (Lipsia 1837, in - 8°);
8. PELLICIA, De christianæ Ecclesiæ politia Colonia 1829);
9. DIDROM, Sur le crucifix (negli Annales archéologiques, t. III);
10. GIORGI, De monogrammate Christi;
11. MÜNTER, Siunbilder und Kunstvorstellungen der alten Christen (Altona 1825);
12. GUENEBAULT, Dictionnaire iconographique des monuments de l'antiquité chrétienne et du moyen-age (Parigi 1843);
13. DIDRON, Manuel d'iconographie chrétienne, grecque et latine (Parigi 1845);
14. MAMACHI, Origines et antiquitates christianæ (Roma 1747-52);
15. Nuova Enciclopedia Popolare Italiana (Vol. 6 – 1858);
16. PRINZAVALLI, Roma Antologia (serie IV anno IX n. 50 – 1988).
© Luigi Albano
© Luigi Albano 2017
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